Sanità, tutti i rischi dell’autonomia differenziata

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Quando si parla di sanità, siamo abituati a descrivere una realtà a ‘macchia di leopardo’, una situazione con (poche) luci e (molte) ombre, caratterizzata da pazienti più o meno fortunati in base alla residenza. Ebbene, secondo gli esperti di Fondazione Gimbe il regionalismo differenziato darebbe il “colpo di grazia al Servizio sanitario nazionale”, legittimando le diseguaglianze già drammatiche nella tutela della salute.


Ecco perchè, nel giorno in cui approda in Consiglio dei ministri la nuova bozza del Ddl Calderoli per l’attuazione dell’autonomia differenziata delle Regioni a statuto ordinario, Fondazione Gimbe chiede di ‘sfilare’ dal Ddl la sanità.

Come ricorda Nino Cartabellotta, presidente della Fondazione Gimbe, il testo “al momento “blinda” l’autonomia differenziata come un ‘affaire’ tra Governo e Regioni esautorando il Parlamento, non prevede risorse per finanziare i livelli essenziali delle prestazioni (Lep) e consente il trasferimento delle autonomie alle Regioni prima senza recuperare i divari tra le varie aree del Paese”.

Cosa dice la bozza

Il testo non entra nel merito delle motivazioni che portano le Regioni a richiedere maggiore autonomia sulle 23 materie. Sulle intese definite tra il ministro degli Affari Regionali e le Regioni al Parlamento è concesso solo di esprimere un parere non vincolante e un voto di ratifica senza possibilità di emendamenti. Le Camere non avranno alcun potere di intervento sulle disposizioni relative al trasferimento di risorse umane e finanziarie alle Regioni, né parteciperanno alla definizione dei Lep. “Ovvero – sintetizza Gimbe – il ruolo del Parlamento è assolutamente marginale”.

Il Lep saranno definiti attraverso Dpcm da una apposita Commissione Tecnica e, in quanto atti amministrativi, potranno essere impugnati solo davanti al Tar, ma non davanti alla Corte Costituzionale. Formalmente dovrebbero essere garantiti a tutti i cittadini, ma restano orfani di risorse, fondamentali per allineare la qualità dei servizi delle Regioni del Centro-Sud a quelle del Nord.
Il trasferimento delle funzioni alle Regioni potrà essere effettuato già dopo la definizione dei Lep, senza attenderne l’attuazione, ovvero l’autonomia precede il recupero dei divari tra le varie aree del Paese.

La tesi di Gimbe

Cartabellotta non ha dubbi: l’attuazione delle maggiori autonomie nella tutela della salute “darà il colpo di grazia al Ssn, aumenterà le diseguaglianze regionali e legittimerà normativamente il divario tra Nord e Sud, violando il principio costituzionale di uguaglianza dei cittadini nel diritto alla tutela della salute”.

La Fondazione ha realizzato un report che ripercorre la storia del regionalismo differenziato e analizza il ddl, valutandone l’impatto sul Ssn (in particolare nel caso di
Emilia-Romagna, Lombardia e Veneto), “fotografando” l’entità delle diseguaglianze regionali sull’adempimento dei Livelli Essenziali di Assistenza (Lea) e sulla mobilità sanitaria, che ogni anno drena risorse (e pazienti) dal Centro-Sud alle regioni del Nord.

Dall’analisi delle richieste di maggiore autonomia avanzate da Emilia-Romagna, Lombardia e Veneto nell’ambito “tutela della salute” emergono alcune considerazioni generali, suffragate da quasi 2.000 stakeholder della sanità in occasione della survey promossa da Gimbe.

Personale e servizi

L’abolizione dei tetti di spesa per il personale sanitario e l’istituzione di contratti di formazione-lavoro per anticipare l’ingresso nel mondo del lavoro di specialisti e medici di famiglia rappresentano oggi strumenti fondamentali per fronteggiare la grave carenza di personale sanitario che andrebbero estesi a tutte le Regioni, sostiene Gimbe.

Alcune forme di autonomia rischiano di sovvertire gli strumenti di governance del Ssn aumentando le diseguaglianze nell’offerta dei servizi: sistema tariffario, di rimborso, di remunerazione e di compartecipazione, sistema di governance delle aziende e degli enti del Servizio Sanitario Regionale, determinazione del numero di borse di studio per specialisti e medici di famiglia.

Ma attenzione: una maggiore autonomia in materia di istituzione e gestione di fondi sanitari integrativi “darebbe il via a sistemi assicurativo-mutualistici regionali sganciati dalla, seppur frammentata, normativa nazionale. Inoltre, la richiesta del Veneto di contrattazione integrativa regionale per i dipendenti del Ssn, oltre all’autonomia in materia di gestione del personale e di regolamentazione dell’attività libero-professionale, rischia di concretizzare una concorrenza tra Regioni con “migrazione” di personale dal Sud al Nord, ponendo una pietra tombale sulla contrattazione collettiva nazionale e sul ruolo dei sindacati”.

Chi chiede maggiori autonomie

“La richiesta di maggiori autonomie – continua Cartabellotta – viene proprio dalle Regioni che fanno registrare le migliori performance nazionali in sanità”. Lo mostra la “fotografia” sugli adempimenti al mantenimento dei Lea relative al decennio 2010-2019. Le tre Regioni che hanno richiesto maggiori autonomie si collocano nei primi 5 posti della classifica, rispettivamente Emilia Romagna (1a), Veneto (3a) e Lombardia (5a), mentre nelle prime 10 posizioni non c’è nessuna Regione del Sud e solo 2 del Centro (Umbria e Marche).

Anche l’analisi della mobilità sanitaria conferma la forte capacità attrattiva delle Regioni del Nord, cui corrisponde quella estremamente limitata delle Regioni del Centro-Sud, visto che nel decennio 2010-2019, tredici Regioni, quasi tutte del Centro Sud, hanno accumulato un saldo negativo pari a 14 miliardi di euro.

Tra i primi quattro posti per saldo positivo si trovano sempre le tre Regioni che hanno richiesto le maggiori autonomie: Lombardia (+€ 6,18 miliardi), Emilia-Romagna (+€ 3,35 miliardi), Toscana (+€ 1,34 miliardi), Veneto (+€ 1,14 miliardi). Al contrario, le cinque Regioni con saldi negativi superiori a € 1 miliardo sono tutte al Centro-Sud: Campania (-€ 2,94 miliardi), Calabria (-€ 2,71 miliardi), Lazio (-€ 2,19 miliardi), Sicilia (-€ 2 miliardi) e Puglia (-€ 1,84 miliardi).

Le diseguaglianze

“Questi dati – continua Cartabellotta – confermano che persistono inaccettabili diseguaglianze tra i 21 sistemi sanitari regionali, in particolare un gap strutturale Nord-Sud che compromette l’equità di accesso ai servizi e alimenta un’imponente mobilità sanitaria in direzione Sud-Nord”. Di conseguenza, l’attuazione di maggiori autonomie in sanità, richieste proprio dalle Regioni con le migliori performance sanitarie e maggior capacità di attrazione, non potrà che amplificare le diseguaglianze.

Ecco perché La Fondazione propone in prima istanza “di espungere la tutela della salute dalle materie su cui le Regioni possono richiedere maggiori autonomie. In subordine, chiede che l’eventuale attuazione del regionalismo differenziato in sanità venga gestita con estremo equilibrio, colmando innanzitutto il gap strutturale tra Nord e Sud del Paese, modificando i criteri di riparto del Fabbisogno Sanitario Nazionale e aumentando le capacità di indirizzo e verifica dello Stato sulle Regioni”.

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