Così il Mes può aiutare la sanità

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L’Italia si sa, oltre ad essere un Paese di santi, poeti, navigatori e commissari tecnici della nazionale ha scoperto più recentemente una passione per la virologia e, dopo la fase più acuta del covid19, quella per la pianificazione economica. Sono ormai quasi due mesi che si discute del “Recovery fund” e dei fondi “Mes”, di se e come prenderli, e praticamente il tema “parole in libertà” è quello che regna sovrano. Tutti concentrati sul “come prenderli” e “se” prenderli ma pochissimi sul cosa farci e sul come gestirli che sono i temi centrali e sul quale si concentra, giustamente, l’attenzione di chi questi soldi ce li dovrebbe dare.

 

Per parlare dei fondi per la sanità, non più di qualche ora fa un autorevole presidente di regione ha detto, più o meno, “ma se ce li danno per la sanità (i fondi Mes..) perché non dovremmo prenderli?”. A questa domanda la risposta sarebbe sin troppo semplice. Se usiamo gli stessi meccanismi di spesa degli ultimi trenta anni vorrebbe dire buttare i soldi dalla finestra ed essendo prestiti che ci vengono fatti e conseguenti debiti sulle spalle dei nostri figli questo sarebbe criminale. Se, in sostanza, diamo i soldi a quelle regioni che hanno dimostrato, dati alla mano, di non saperli spendere o di sprecarli o di ingrossare le risorse del malaffare sarebbe come dire riempire d’acqua un secchio bucato.

 

Questa invece può essere una grande occasione per fare investimenti strutturali e per ridurre il gap delle disuguaglianze che nel corso degli anni ha diviso il paese in cittadini di seria A e di serie B. Avere un approccio strategico e non minimalista è doveroso e lo sarebbe altrettanto su questo creare un consenso ampio politico parlamentare almeno sugli assi di investimento pluriennali per far si che ogni governo non li rimetta in discussione. Bisognerebbe avere il coraggio di ragionare capovolgendo gli strumenti di valutazione storici, iniziando a ragionare di modelli di salute basati sugli “outucomes”, premiando i servizi sanitari che sulla base di strumenti di misurazione definiti e basati sugli indici di salute della propria popolazione migliorano la qualità della salute e della vita delle proprie comunità.

 

Abbiamo un apparato sanitario vecchio, strutture ospedaliere che andrebbero ristrutturate, un parco tecnologico antiquato e disfunzionale, abbiamo una informatizzazione bassa e banche dati che, quando ci sono, non dialogano tra loro. L’e-health è poco diffusa, l’intelligenza artificiale applicata alla salute ancora meno, la telemedicina non è nei Livelli Essenziali di Assistenza e i DRG (il sistema di rimborso dello Stato alle prestazioni erogate da strutture pubbliche e private convenzionate) non aggiornato da oltre vent’anni con l’effetto di avere “dentro” prestazioni che forse non servono più ed averne “fuori” altre importanti frutto della innovazione tecnologica degli ultimi anni.

 

A tutto questo si aggiunge la sfida delle terapie innovative e della medicina predittiva che ha bisogno di un modello anche di pagamento delle prestazioni, e di contabilizzazione delle stesse, completamente diverso rispetto al passato. Una riflessione su questo sarebbe utile anche per rimettere in discussione, partendo dal valore della innovazione e dell’impatto che questa ha nello sviluppo del paese e per la vita delle persone, il tradizionale rapporto tra spesa corrente e in conto capitale quando parliamo di salute.

 

Avere una visione strategica non vuol dire “fare elenco della spesa” ma definire gli assi e metterli al servizio di un progetto di riforma che parta dei bisogni delle persone e delle comunità in cui vivono. Ad esempio avere un fondo dedicato per la lotta alle disuguaglianze, che venga erogato sulla base della misurazione degli outcomes, averne uno legato alla innovazione tecnologica e strutturale, uno per l’aggiornamento dei LEA ed uno per l’abbassamento della età media del personale del servizio sanitario puntando sui giovani e su chi vuole mettere a disposizione del nostro paese le proprie competenze ed il proprio talento.

 

Quello di cui ho appena scritto non è un percorso particolarmente complicato da impostare ma necessita di alcune condizioni essenziali. La prima è di avere una ottica di “interesse generale” nella discussione pubblica, non possono esserci rendite da difendere ma la consapevolezza che solo tutelando l’interesse generale si sostengono anche quelli particolari. La seconda condizione è che al centro devono esserci i bisogni delle persone, metterli al centro del dibattito pubblico e favorire la partecipazione delle persone e delle comunità è il primo passo per ricostruire quel rapporto di fiducia tra cittadini ed istituzioni che sembra essere saltato da molti/troppi anni. La terza condizione, forse la più difficile, è che la politica abbandoni l’estremo tatticismo in cui si è rinchiusa per cui è importante solo il “qui ed ora” mentre guardare al futuro è sempre un problema di chi verrà dopo di te.

 

Come si vede non sono condizioni semplici ma, se teniamo davvero al nostro Paese, abbiamo il dovere di provarci.

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