Psicosi, il legame con l’infiammazione

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Marco Colizzi

Marco Colizzi

Marco Colizzi Professore aggregato di psichiatria Università di Udine

Il nostro organismo si difende da insulti esterni che possano minarne lo stato di salute attivando una risposta infiammatoria per ristabilire l’equilibro pre-esistente. L’infiammazione non è uno stato di malattia, ma un meccanismo fisiologico che accompagna diversi eventi biologici della vita. È un evento più complesso di quanto si credesse in passato, con precise e limitate fasi di attivazione-risoluzione, circoscritte nel tempo.

Se i processi infiammatori si alterano, può verificarsi una risposta eccessiva o protratta, in grado di promuovere malattie, come ad esempio quelle cardiovascolari ed oncologiche. Se l’infiammazione raggiunge il cervello (neuroinfiammazione), il nostro benessere psichico ed il funzionamento cognitivo sono a rischio.

Si parla di “sickness behavior”, comportamento di malattia. Immaginate di sentirvi affaticati, giù di umore, meno capaci di avere relazioni sociali, meno performanti sul lavoro e in difficoltà con compiti che richiedono un impegno mentale. Come quando si ha l’influenza, ma la situazione non si risolve e sembra peggiorare. Anche nel “long-Covid”, di cui pure si è occupato il nostro gruppo di ricerca, si presuppone che l’infiammazione sostenga sintomi di questo tipo per diversi mesi dopo l’infezione acuta.

Psicosi, di che si tratta

I disturbi psicotici riducono la qualità di vita. Hanno un picco in tarda adolescenza-prima età adulta, e riguardando il 3% della popolazione. In casi come la schizofrenia, possono cronicizzare e necessitare di cure a vita. I primi segnali possono essere il ritiro sociale, il calo di performance scolastico-lavorativa ed una sensazione di minore efficienza nelle capacità di pensare ed esprimersi.

Nelle fasi acute, possono svilupparsi sospettosità, idee bizzarre ed allucinazioni (es. sentire le voci). Diversi sistemi neurotrasmettitoriali, quello della dopamina in primis, sono ritenuti responsabili di questi fenomeni e le terapie disponibili (es. antipsicotici) mirano a ristabilire l’equilibrio perduto in questi sistemi. 

In tempi recenti, altri meccanismi hanno iniziato a spiegare sintomi su cui i farmaci sono meno efficaci, come quelli di sickness behavior, spesso responsabili della gravità della malattia nel lungo termine. Tra questi, il sistema endocannabinoide, l’asse intestino-cervello, l’infiammazione e lo stress ossidativo, in grado di danneggiare cellule e Dna.

In prospettiva, una molecola di interesse è il cannabidiolo (CBD), un composto presente nella cannabis, ma privo di effetti psichici negativi. Il CBD, attualmente commercializzato come antiepilettico, è al vaglio di studi per il suo potenziale antipsicotico ed antiinfiammatorio. 

E se il nostro organismo producesse qualcosa simile al CBD, capace di contrastare l’infiammazione e la psicosi? Ebbene, questa molecola esiste e si chiama palmitoiletanolamide (PEA). È un derivato di un acido grasso prodotto su richiesta dall’organismo per svolgere funzioni antidolorifiche e antinfiammatorie. Da una recente revisione della letteratura effettuata dal nostro gruppo di ricerca, questo meccanismo di difesa si attiva anche nelle psicosi: i livelli di PEA aumentano nelle prime fasi di malattia, come tentativo di contrastare la patologia. Purtroppo, esso si perde nel tempo, indicando che l’organismo esaurisca la capacità di contrastare l’infiammazione cronica, cedendo il passo alla malattia. 

La buona notizia è che è possibile aumentarne l’apporto nutrizionale, come per la vitamina D o gli omega 3. La PEA, quando ultra-micronizzata, sembra avere effetti più marcati sul dolore e l’infiammazione, grazie al miglior assorbimento. Dagli studi emerge che l’assunzione orale di PEAultra-micronizzata possa ridurre proprio i sintomi di sickness behavior. 

Il funzionamento della PEA insegna che occorre aumentarne l’apporto prima che questo meccanismo riparativo si consumi, sin dalle prime fasi di malattia. Se assunta ancor prima dell’esordio di psicosi, potrebbe prevenirlo?

Da 30 anni si parla di stato mentale a rischio per identificare sintomi attenuati che potrebbero sfociare in psicosi conclamata. Purtroppo, non esiste una valida strategia terapeutica per ridurre questo rischio. È vitale studiare se la PEA possa riuscirci: noi all’Università di Udine lo stiamo già facendo. Rimanete sintonizzati. 

*Marco Colizzi, Professore aggregato di psichiatria, Università di Udine

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