Covid, priorità vaccinale per le persone con disabilità?

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È sempre complicato parlare di persone con disabilità ad un pubblico generalista. Franco Bomprezzi sosteneva che occorre trovare il pertugio nel sistema dei media, poiché la disabilità è polarizzata tra due estremi, tra l’eroismo di vivere la vita con una menomazione e il caso di cronaca per la sfortuna di essere oggetto di forme di sopruso, abbandono e violenza.

 

Negli occhi di chi legge e nelle orecchie di chi ascolta, questa deformazione è viva e costantemente alimentata. Il più delle volte rischia di condurre verso il pregiudizio ed il paternalismo.

 

Occorre invece riuscire a parlare di diritti violati e di opportunità negate all’interno del più ampio fenomeno delle diseguaglianze. Occorre quindi trasferire l’immaginario sulla disabilità dentro la quotidianità della conflittualità sociale e politica affinché sia affermato il principio stesso che si sta parlando di persone con afflati, aspettative, desideri, sogni, e prospettive di vita come chiunque altro. Conquistare o riconquistare la dimensione umana deve essere l’obiettivo per nuovi spazi sulla comunicazione sulla disabilità, restituendo voce a coloro che non ce l’hanno.

 

Potrebbe sembrare grave e retorico tutto ciò. Se invece ci si applica in un’osservazione più attenta della condizione materiale, ciò che a prima vista è spiacevole prende forma nel racconto di un’ingiustizia con la quale si può fraternizzare.

 

La pandemia ha colpito indiscriminatamente tutta la popolazione. Non di meno alcuni gruppi sociali l’hanno subita più di altri. Come non ricordare a tal proposito gli anziani che stanno perdendo la vita, coloro che hanno combattuto per raggiungere il benessere che hanno consegnato alle generazioni successive. I dati sulla disoccupazione ci dicono che le donne sono il gruppo sociale che ha perso il lavoro più di altri. I dati che vengono proposti alla popolazione però sono incompleti e privi di analisi adeguate.

 

È certamente vero che il numero maggiore di decessi lo si ha tra la popolazione con età molto avanzata. È altrettanto vero che il secondo gruppo va sotto la voce di persone con “patologie pregresse” al netto dell’età. Nella comunicazione di ogni giorno comorbidità è diventata una parola di uso comune. Un’analisi più accurata traduce quella parola in altre più comprensibili come ipertensione arteriosa, diabete tipo 2, cardiopatia ischemica, fibrillazione atriale, demenza, insufficienza renale, Bpco, cancro attivo negli ultimi 5 anni, scompenso cardiaco, ictus, obesità, insufficienza respiratoria, epatopatia cronica, malattie autoimmuni, dialisi e Hiv. Queste parole hanno in comune che sono malattie croniche e disabilità. Corrispondono spesso, molto spesso, a coloro che vengono certificati con l’articolo 3 comma 3 della legge 104/92 “handicap grave” oppure con il 100% dell’invalidità civile.

 

È altrettanto vero che i posti di lavoro che si sono persi, sono nella maggior parte le donne. Non c’è però nessun approfondimento ad esempio sui carichi familiari, se quindi si prendono cura di una persona con disabilità figlio, figlia, padre madre eccetera. I lavoratori con disabilità non vengono nemmeno osservati delle statistiche generali, non sono degni di essere considerati disoccupati, inoccupati o licenziati. Persino la recente relazione al Parlamento sulla legge 68/99 (diritto al lavoro delle persone con disabilità) è di cinque striminzite paginette. Per inciso, nel 2018 ultimo anno di cui si hanno i dati, si può calcolare un tasso di disoccupazione pari al 72% con 1 milione di persone in cerca di lavoro.

 

Ciò che sfugge quindi alla narrazione massmediatica è il mondo della disabilità: senza scuola poiché la Dad è inaccessibile, a rischio di licenziamento, se non già licenziati, il lavoratore con disabilità e la propria madre, senza servizi perché tuttora non riattivati completamente dopo il lockdown di marzo, e soprattutto con una gran paura di contrarre il virus perché molto spesso rientrano in quei gruppi di patologie, e costretti a non essere nelle condizioni di poter rispettare la distanza sociale prevista dai famosi Dpcm con i propri caregiver. A rischio anche di trasformarsi in super diffusori del contagio.

 

Questo disagio sociale non è visibile come accaduto in passato, proprio per la paura che hanno le persone nell’uscire di casa. Hanno provato a renderlo visibile le associazioni europee che il 3 dicembre 2020, giornata internazionale dedicata alle persone con disabilità, assieme al Comitato Economico Sociale Europeo hanno rivolto un appello alle istituzioni europee ed ai governi dell’Ue affinché fosse data la priorità vaccinale alle persone con disabilità. Da lì in poi, a livello nazionale di ogni singolo Paese membro si sono mosse molte cose, salvo che l’interruzione della fornitura da parte dei produttori ha messo tutto in discussione.

 

Secondo il commissario Arcuri la priorità era garantita assieme agli ultraottantenni. Le regioni, ca va sans dire, si stanno muovendo secondo registri molto diversi fra di loro, riconoscendo meno la priorità. La crisi di governo non ha aiutato a prendere una decisione definitiva per l’intera comunità nazionale. Ad oggi è certo che le persone con disabilità ed i loro familiari caregiver residenti in alcune regioni stanno per essere vaccinati prima di coloro che hanno la sfortuna di vivere in regioni meno “sensibili”, nonostante mozioni parlamentari approvate a stragrande maggioranza. Eppure le regioni dovrebbero avere solo autonomia organizzativa, non decidere la priorità sulla cura.

 

*Pietro V. Barbieri, vice presidente Gruppo 3 Diversity Europe Cese Comitato Economico Sociale Europeo

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