La sfida della parità di genere nel welfare aziendale

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“Per 25 anni ho lavorato in azienda e mai ho subito una reale limitazione professionale derivata dal genere. Ho faticato però per superare il gap accumulato della scarsità di presenza femminile nei ruoli di comando, ho faticato per costruire un sistema di welfare a supporto della genitorialità (non della maternità, della genitorialità), ho faticato per offrire più possibilità di crescita alle donne accelerando il loro sviluppo e la loro visibilità”. Amelia Parente è responsabile delle risorse umane e della comunicazione di Roche Italia. E ha sviluppato una passione particolare per il tema della “diversità” al femminile.

Non solo nell’orizzonte del welfare aziendale, ma in tutta l’attività manageriale che svolge al vertice della multinazionale svizzera. “È per questo che mi sono messa a disposizione dello sforzo organizzato per la realizzazione di una parità reale. Faccio parte (una delle socie fondatrici) dell’associazione Donne Leader in Sanità che promuove il manifesto per l’equità di genere nei ruoli apicali del mondo della sanità che ancora oggi presenta dati imbarazzanti di presenza femminile nei ruoli di comando: basti pensare che i due terzi del personale sanitario è fatto di donne e che solo 16% circa dei primari e/o direttori generali è di genere femminile”.

Eppure, in questa conclamata “diversità” discriminata, ci sono attività professionali e ruoli manageriali che sembrano offrire alle donne un percorso privilegiato di carriera, come la funzione Hr. In particolare, c’è una spiegazione della loro grande presenza in ruoli che presuppongono un corredo di attitudini e competenze genericamente più orientato alla relazione?

Uno dei motivi per cui le donne scelgono e vengono scelte in certe professioni piuttosto che altre, deriva anche da una serie di pregiudizi antichi quanto lo è l’umanità stessa. Il pregiudizio misogino è millenario. Longitudinale nel tempo e nello spazio, trasversale al pensiero filosofico, storico, religioso, alla mitologia come alla scienza, inscalfibile e tetragono, il pregiudizio contro le donne ha radici così profonde, antiche e interconnesse che non è dietro, è dentro. Talmente dentro da farci correre il rischio dell’autocastrazione.

Quindi, affidare alle donne una leadership di genere distintiva e più efficace rispetto a quella maschile proprio per alcuni tratti inerenti il rapporto di “cura” degli altri, invece di costituire un argomento a favore della predilezione delle donne, rischia di diventare argomento per la loro segregazione.

I medici, infermieri e operatori sanitari italiani sono stati ufficialmente candidati al Premio Nobel 2021 per il loro straordinario impegno, il loro sacrificio in prima linea per fronteggiare il COVID. Da Oslo è arrivato il placet. Un bel modo di onorarli. Sogno che ricevano quel premio tutti: uomini e donne. Sogno che una menzione speciale arrivi alle donne per il loro sforzo doppio, triplo, quadruplo…per il loro eroismo che ha il doppio merito di non presentare sempre pre-condizioni e vantaggi dell’eroe erculeo. È anche per questo che scelgo oggi di dedicare alla questione femminile mente, cuore e fegato: intelligenza, amore e coraggio messo a disposizione delle donne perché prima di ogni altra cosa viene l’alleanza. Non solo mentorship ma allyship.

Una segregazione, come dice lei, che viene da lontano?

Prendo le lettere dell’alfabeto e cerco per ciascuna un personaggio eminente della nostra storia e fondativo della nostra cultura. Di quelli che si studiano a scuola per intenderci e che ci ricorderemo per sempre. Ne cerco che si siano espressi chiaramente circa la subalternità naturale della donna, la sua congenita inferiorità, l’irreparabile difettosità, la sua fisiologica inclinazione e persino il dovere di esclusiva responsabilità verso i soli ruoli familiari o di cura. Grazie alle lezioni di recenti di Eva Cantarella e all’illuminante libro di Paolo Ercolani, per ogni lettera dell’alfabeto ne trovo almeno uno. Da Aristotele a Bacone, da Darwin a Engels, da Marx a Lutero, da Rousseau a Voltaire…

Se poi vediamo i giornali di oggi e molte opinioni contemporanee vediamo che poco è cambiato…

Venticinque anni fa mi sono laureata con una tesi sui fattori stressogeni di genere e sulla loro correlazione tra essi e la prestazione professionale. Tra i fattori stressogeni tipici del genere ci sono la stereotipizzazione (il pregiudizio), l’omologazione (la tendenza a re-incarnarsi in modelli maschili di comando), il doppio ruolo emozionale (la discrasia tra il ruolo sociale di cura e quello professionale di comando).Se i titoli dei giornali e alcune opinioni del secondo millennio possono rievocare gli scritti di Aristotele e Platone, quelli di Rousseau o di Nietzsche o alle tragedie di Eschilo ed Euripide, in un ottovolante che lascia un filo rosso comune, come un flash della storia in ritorno al futuro…allora troppa poca strada è stata fatta nel disarcionare il condottiero indomito della diseguaglianza: il pregiudizio. La questione femminile è un fatto politico: di strumenti certo, ma prima di tutto di idee, perché non c’è nulla di più concreto di una idea.

C’è una urgenza per cambiare, l’urgenza della consapevolezza.

‘By the way’ chiederò agli insegnanti dei miei figli di parlare della concezione misogina dei grandi pensatori, o alle donne medico della mia comunità di “Donne Leader in Sanità” di rileggere le affermazioni di Ippocrate sul quale giurano al momento della loro consacrazione professionale. È una urgenza la rifondazione culturale dell’idea di uguaglianza che passa attraverso pensieri che si nutrono di fatti. ‘By the way’ invito sommessamente al silenzio delle parole e all’urlo clamante delle azioni. Ne abbiamo abbastanza di retorica e slogan orecchiabili tutti nelle hit parade. È ora di azioni che mettano le donne in prima linea in ruoli decisionali apicali senza se e senza ma. “Non vogliamo essere invitate alla festa, vogliamo ballare”.

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