Se lo smart working aumenta il tecnostress

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Lo smart working aumenta il tecnostress. Non è più una ipotesi: a confermare il nuovo rischio sono 2.538 lavoratori digitali che ho interpellato a febbraio 2021 per una ricerca sulla malattia professionale “Tecnostress” , come è definita da una sentenza del 2007 della Procura di Torino e dall’Istituto nazionale Assicurazione contro gli infortuni sul lavoro (Inail).

I risultati di questa ricerca hanno ispirato il titolo del mio nuovo libro “Lo Smart working aumenta il TecnoStress” (disponibile da pochi giorni su Amazon). La mia tesi è condivisa anche da altri studi che hanno analizzato gli effetti negativi sulla salute provocati dallo smartworking, soprattutto durante i periodi di lockdown a causa della pandemia mondiale Covid-19. Nel mio libro ho raccolto l’elenco completo delle ricerche.

Quindi attenzione: si rischia di ammalarsi se si lavora da casa con le nuove tecnologie (oppure in qualunque luogo è disponibile una connessione internet). I sintomi? Mal di testa, ansia, calo della concentrazione, deficit dell’attenzione, insonnia, disturbi gastrointestinali, patologie cardiocircolatorie.

Nel mio libro ho elencato 18 motivi che favoriscono l’aumento del tecnostress nello smart working, ma i due principali sono: la fusione dello spazio lavorativo con la vita privata, che ci fa usare la tecnologia digitale senza sosta (per motivi aziendali e personali). Quando si lavora in ufficio, invece, questa tendenza è ridotta al lumicino e siamo maggiormente concentrati sulla nostra attività. Ma anche la distrazione continua, che riduce i livelli di attenzione e crea un senso di frustrazione (ad esempio la mamma che viene interrotta continuamente dalla figlia mentre lavora al computer).

Entro il 2030, secondo il World Economic Forum, l’83,5% dei lavoratori utilizzerà lo smart working. Si tratta di oltre 1,8 miliardi di persone. Molte aziende hanno deciso di utilizzare il lavoro agile anche dopo la fine dell’emergenza sanitaria, lasciando i lavoratori liberi di eseguire i propri compiti da casa o in ogni altro luogo che scelgano di utilizzare.

La legge 81 del 2017 che regola il “lavoro agile” indica infatti che il datore di lavoro “non può vincolare l’orario e il luogo di lavoro” (articolo 22). Lo smart worker può lavorare anche tra i boschi degli Appennini se ha un computer e una connessione internet satellitare (oggi esistono modem di questo tipo, che sono piuttosto costosi ma assicurano la connessione ovunque).

Anche in Italia lo smart working è diventato la nuova organizzazione del lavoro, nel settore privato e nella Pubblica amministrazione (per ora il limite è il 15%). Vittorio Colao, ministro dell’Innovazione tecnologica nel governo Draghi, ha dichiarato che “lo smart working è il futuro e si lavorerà in presenza al 50%”.

Nel 2019 gli smart worker erano appena 221 mila, nel 2020 sono saliti a 1,8 milioni (dati di Bankitalia), entro la fine del 2021 saranno 5,3 milioni (dati Politecnico di Milano) e nel 2022 raggiungeranno i 10 milioni secondo una ricerca della Rome Business School.

La pandemia mondiale ha spinto verso il lavoro digitale da remoto e non si torna più indietro. Le riunioni si effettuano ormai in videoconferenza (con Zoom, Skype, GoTomeeting e perfino WhatsApp). Si trascorre più tempo con il computer portatile, il tablet, lo smartphone, e spesso anche fino a tarda sera e nel weekend. Si ha la sensazione di non staccare mai la spina (termine, tra altro, che ci paragona a una macchina). Si può vivere così? Che impatto ha lo smart working sulle relazioni e la salute? Se ci ammaliamo e non siamo più produttivi, rischiamo il licenziamento?

In Italia il Decreto legislativo 81 del 2008 tutela la salute e la sicurezza nei luoghi di lavoro: prevenzione dei rischi, formazione, uso dei dispositivi di sicurezza, obblighi del datore di lavoro e sanzioni penali. Nel 2010 con una circolare il ministero del Lavoro ha indicato che lo stress è un rischio per la salute e va valutato (cioè misurato) in ogni ambiente aziendale. Ciò vale anche per il tecnostress.

Ma con l’avvento dello smart working come si fa a misurare lo stress digitale a casa del lavoratore oppure quando è in mobilità esterna? Come devono procedere gli ispettori del lavoro per accertare la presenza del rischio? Non è facile rispondere. A mio avviso il legislatore deve al più presto aggiornare la normativa e indicare come si misurare il tecnostress nello lavoro agile. Altrimenti ogni azienda procederà in modo autonomo, col rischio di sbagliare.

Questo è il primo modo di fare prevenzione: cioè valutare bene il rischio (tra l’altro è un obbligo di legge). Poi c’è la formazione dei lavoratori: nel caso dello smart working, paradossalmente, la formazione si è spostata online in videoconferenza, aggravando il pericolo.

Da quando sono presidente di Netdipendenza Onlus (2007) mi occupo di tecnostress e internet dipendenza (Internet addiction disorder), la patologia inclusa nel manuale mondiale delle malattie psichiatriche (DSM 5). Ho molta esperienza sui rischi nel lavoro digitale e posso affermare che lo smart working sarà un amplificatore del tecnostress. Nel nuovo libro ho elencato le professioni ad alto rischio tecnostress (tra queste ci sono anche i giornalisti) e dunque gli smart worker rischiano di cadere in depressione, possono soffrire di attacchi di panico, patire l’insonnia e “consumarsi” dentro. Vogliamo diventare “smart zombie”?

*Enzo Di Frenna, giornalista, scrittore e presidente di Netdipendenza Onlus (enzodifrenna.info)

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