Depressione, la parola agli italiani

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Il disagio psicologico è in forte crescita. Ansia, crisi di panico, autolesionismo e depressione accompagnano sempre più il nostro vivere, la nostra  quotidianità. E questo è vero soprattutto tra i giovani. Il trauma della pandemia, con la paura, l’isolamento, il venir meno dei contesti, delle routine, delle relazioni e il contatto con la morte, ci ha lasciati muti e soli.

Umore a terra, frustrazione, perdita di interesse e scarsa autostima. Sono solo alcuni dei campanelli d’allarme della depressione, un problema sempre più frequente, ma ancora poco conosciuto e trascurato. Da un sondaggio promosso dall’Eurodap (Associazione Europea per il Disturbo da Attacchi di Panico) in occasione della Giornata europea della depressione che si celebra oggi, è infatti emerso che il 76% dei rispondenti crede di saper riconoscere sintomi depressivi, ma il 45% di questi, a contatto con persone con un disagio psicologico, ammette di non essersene accorto. Inoltre l’81% ritiene che la depressione sia di difficile accettazione e che in alcuni casi è addirittura auspicabile evitare di manifestare una difficoltà.

Ma come intervenire? Come prendersi cura?

Un primo approccio di lettura e azione sul fenomeno, si rifà a un modello medico, centrato sull’individuo: sintomo, diagnosi, terapia (in questo caso, psicoterapia o psicofarmaco). Governo, Regioni, Società scientifiche si sono mobilitate e impegnate per garantire il diritto alla salute mentale attraverso bonus, rafforzamento dei servizi di cura territoriali, ipotesi di riforma dei dipartimenti di salute mentale. Farsi carico di chi soffre, di chi si è ammalato, di un disagio individuale che va contenuto.

E cosa fare quando è un’intera società che ha smarrito il senso? Quando si tratta di riuscire a rendere generativo ciò che abbiamo vissuto e stiamo vivendo, collettivamente? E’ sufficiente cercare di ri-sanare il singolo individuo “malato”? Le emozioni non sono un fatto individuale. Le emozioni sono sociali, perché le condividiamo con i gruppi e le organizzazioni a cui apparteniamo, perché le costruiamo nelle culture in cui viviamo. La salute non è solo uno “stato” individuale, ma un “processo” che muove e si sviluppa lungo il percorso della vita all’interno di specifici contesti sociali.

Il disagio che stiamo vivendo si può sconfiggere solo con un nuovo disegno di società per il domani, facendolo diventare fecondo di cambiamento; alimento di nuove forme di comunità. (…sperando di non essere solo Avatar a spasso nel Metaverso!).

E allora, occorre una vera azione politica di cura. Occorrono nuovi collettori sociali. Occorre “prendersi cura del capitale semantico dell’umanità” (Floridi, 2022). Occorre superare la frammentazione: tra i saperi, tra le discipline, tra le società scientifiche, tra le persone, tra le parti interne di ognuno. Non possiamo immaginare di mandare tutti in psicoterapia. Non possiamo medicalizzare la vita. Il disagio è diffuso.

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