Gender gap: ineguaglianza è violenza?

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È morta un’altra donna, Juana Cecilia Hazana Loayza, per mano di un uomo. I femminicidi in Italia sono oltre 60 dall’inizio dell’anno: è emergenza sociale. Il 25 novembre ricorre la Giornata internazionale per l’eliminazione della violenza contro le donne, un tema che non dovremmo perdere di vista mai e che merita un’agenda di confronti e riflessioni su più fronti.

I femminicidi sono frutto di follia ma anche mancanza di educazione e cultura. L’auspicio è che si possa allargare il focus e indagare le cause sociali profonde che alimentano un giudizio di inferiorità nei confronti del genere femminile, sfociando, nei casi più estremi, con l’intervento di persone deviate, in abuso e brutalità.

C’è una metà del cielo che sembra essere di fatto un po’ meno di metà, anzi, in generale, sempre “un po’ meno”. Un po’ meno presente, un po’ meno ascoltata, un po’ meno rappresentata, un po’ meno legittimata. Tutte azioni che spesso prevedono un soggetto invitante, in qualche modo abilitante, maschile.

Questo rapporto di subordinazione e di svantaggio è riscontrabile anche nei contesti lavorativi dove, su molti fronti, le donne arrancano. Infatti, anche se su un piano diverso, la gender equality sul lavoro potrebbe essere un piccolo ma fondamentale tassello sociale per evitare che le donne siano sottovalutate, marginalizzate e sottodimensionate. Se vediamo i dati, la percentuale delle donne manager nel settore privato in Italia si attesta sul 20%.

Le amministratrici delegate, poi, superano a stento il 6%. Si tratta di numeri con cui abbiamo una certa familiarità e che orientano il dibattito pubblico degli ultimi anni, seppur qualcuno si chieda se sia così importante soffermarsi sulle quote. Se vediamo l’ultimo Gender Gap Report del World Economic Forum attesta un aumento del 37% nel divario tra i generi, tracciando che, a livello mondiale, l’equilibrio è quasi raggiunto nel campo dell’istruzione (95%) e della salute (96%), mentre è un miraggio per quanto riguarda la partecipazione economica (58%) e politica (22%).

E se guardiamo i compensi? In Europa, in media, alle lavoratrici spetta una retribuzione oraria inferiore di oltre il 14% rispetto ai colleghi. La distanza cresce se si guarda al compenso mensile, raggiungendo il 36,7% e, in Italia, addirittura il 43%. In pratica, è come se da oggi alla fine dell’anno le donne lavorassero gratis in confronto ai loro pari uomini (Gender Pay Gap Report, Jobpricing).

Eppure, anche nel quotidiano il termometro ci aiuta a decretare se abbiamo la febbre oppure no e, visti i numeri, sembra proprio che in questo caso ci sia un’infezione in corso. Per di più i sondaggi delle Risorse Umane confermano che esiste anche un divario invisibile, quello delle competenze.

Le donne in media hanno caratteristiche migliori (per quanto riguarda i risultati accademici, per esempio) con una preponderanza di soft skills che agevolano i processi e la produttività nei contesti lavorativi. Insomma, guadagniamo meno senza che sia giustificabile. Tutto questo squilibrio ha solo un’incidenza economica? No di certo. È impensabile che non vi siano ripercussioni psicologiche e sociali con ricadute non solo sul genere femminile ma su tutta la società. Scordiamoci per un attimo dell’aritmetica per spostare l’attenzione sulle parole.

È curioso come un altro significato di “contare” sia proprio “avere autorità, credito, importanza”. Chi conta ha autorevolezza e chi ha autorevolezza, per definizione, orienta le decisioni, le strategie, i modelli. La scarsa biodiversità di alcuni ecosistemi, dunque, corrisponde all’emanazione di un approccio omogeneo, in questo caso dal punto di vista del genere, che influenza a cascata diversi aspetti dell’ambiente lavorativo e, in senso più ampio, economico e sociale.

Siamo così abituati ai vertici maschili che è attitudine piuttosto diffusa attribuire d’impulso agli uomini nella stanza maggior autorevolezza. Questo atteggiamento può pregiudicare la natura e i ritmi dei confronti verbali durante riunioni o consessi. Le donne, infatti, fanno più fatica a intervenire, sovente proprio perché non vedono riconosciuta la propria autorevolezza da parte dei loro interlocutori. Da questo pregiudizio derivano altri comportamenti impari, per esempio l’utilizzo del nome proprio o del “tu” parlando con professioniste laddove si riserva il lei o un titolo formale ai colleghi di pari livello.

Tutta questa disparità si può considerare violenza? Ad ognuno le proprie riflessioni, quel che è certo è che lo svantaggio di una parte finisce per indebolire il tutto e che la diseguaglianza, in tutte le sue manifestazioni, ha un costo sociale.

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