Tumori, biomarcatori chiave per trattamenti personalizzati

Grazia Arpino e Michelino De Laurentiis
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La terapia dei tumori si sta affinando sempre più, facendosi via via più personalizzata. Merito dei nuovi criteri decisionali basati su vecchi e nuovi biomarcatori e sulla biopsia liquida. Questo avrà un enorme impatto sugli attuali standard di trattamento perché potrà consentire di evitare tante terapie (chemio, radioterapie, target therapy) di nessun impatto sulla sopravvivenza, risparmiando in questo modo risorse e soprattutto effetti tossici inutili ai pazienti. Ecco alcune novità sul fronte dell’approccio terapeutico contro diversi tumori arrivate dal recente meeting Asco.

Tumore del colon: la biopsia liquida indica a chi serve la chemio dopo l’intervento chirurgico. Chemioterapia si o chemioterapia no dopo l’asportazione del tumore? È la difficile decisione da prendere di fronte alla zona grigia dei tumori del colon di stadio II, troppo avanzati per escludere a priori la chemio, ma non troppo per decidere di farla a tutti a cuor leggero. E a supportare gli oncologi in questa difficile decisione potrebbe arrivare a breve la biopsia liquida, un esame del sangue in grado di indicare la presenza di micrometastasi, invisibili agli esami radiologici e potenzialmente utile dunque nel guidare l’iter terapeutico. Lo suggeriscono i risultati di uno studio presentato all’Asco e pubblicato in contemporanea sul New England Journal of Medicine.

Cos’è la biopsia liquida. Per biopsia liquida s’intende il dosaggio del Dna tumorale circolante (ctDNA); è un test che si esegue su un prelievo di sangue e che va effettuato a distanza di almeno un mese dall’intervento di asportazione del tumore. Frammenti di Dna tumorale vengono liberati continuamente in circolo a seguito della morte delle cellule di vari tipi di tumore, portando con sé un carico di informazioni genetiche ed epigenetiche, identiche a quelle del tumore dal quale originano. Un’opportunità unica dunque per un monitoraggio non invasivo da poter ripetere all’infinito, attraverso un semplice prelievo di sangue. Sono due le tipologie di test principali attualmente in uso per lo studio del ctDNA: quello cosiddetto ‘tumore-informato’ (che presuppone di avere a disposizione un’analisi molecolare precedente del tumore) e quello cosiddetto ‘non-informato’ dal tumore (detto anche ‘agnostico’ o plasma-only) che prevede un’analisi basata su pannelli di mutazioni, metilazione e frammentazione.

La valutazione attraverso il ctDNA della malattia minima residua (detta anche ‘misurabile’ o ‘molecolare’), cioè l’individuazione delle micrometastasi, invisibili all’imaging radiologico, sta prendendo sempre più piede nella valutazione di quali pazienti con tumore del colon sottoporre a chemioterapia dopo l’intervento. Il ctDNA viene rilevato dopo l’intervento nel 5-30% dei pazienti con tumore del colon in stadio II-III e una serie di studi ne hanno dimostrato il valore prognostico. Il più grande di questi, lo studio giapponese Galaxy ha studiato mille pazienti con tumori del colon dallo stadio I al IV con il metodo tumour-informed in vari momenti sia pre- che post-operatori, dimostrando che quest’analisi ha ottime capacità predittive sulla comparsa di recidive. Risultati simili vengono dallo studio francese Idea, condotto su pazienti con tumore del colon in stadio II-III. Fin qui gli studi osservazionali ma nel mondo sono intanto partiti numerosi studi di intervento sull’impiego del ctDNA come criterio guida per definire la necessità di sottoporre a chemioterapia adiuvante i pazienti con tumore del colon. Solo questi risultati potranno dire con certezza se il ctDNA possa essere usato come criterio guida per modificare il paradigma della terapia adiuvante.

Niente radioterapia dopo la chirurgia nelle pazienti con tumore del seno e Ki67 basso. Un biomarcatore può indicare quali pazienti over 55 con tumore del seno di tipo ‘luminale A’ avranno bisogno di radioterapia, dopo un intervento di quadrantectomia per tumore del seno e quali invece potranno proseguire con la sola terapia ormonale. A dimostrarlo è lo studio Lumina, condotto su 500 donne canadesi con tumore della mammella di tipo luminale A; le pazienti con presenza di Ki67 (un biomarcatore proteico) in meno del 13,5% delle cellule tumorali potrebbero fare a meno della radioterapia post-operatoria. Con la sola terapia ormonale infatti il loro tasso di sopravvivenza libera di malattia in questo studio è risultato pari al 90% e quello di sopravvivenza globale superiore al 97%. Sono risultati potenzialmente practice changing per molte pazienti a basso rischio di recidiva di tumore.

Tumori del seno: i biomarcatori che indicano se la paziente risponde al ribociclib –
BioItaLEE è uno studio tutto made in Italy, vero fiore all’occhiello della ricerca tricolore, che ha coinvolto finora 287 donne con tumore della mammella, seguite presso 47 centri. I risultati dimostrano che l’analisi della timidina chinasi 1 e del ctDNA (biopsia liquida) nelle pazienti con tumore della mammella avanzato ormonosensibile, HER2 negativo, possono indicare dopo appena 15 giorni dall’inizio del trattamento con ribociclib (un inibitore CDK4/6) quali pazienti risponderanno a questa terapia e quali no.

Lo studio è stato presentato all’Asco dal professor Michelino De Laurentiis (coordinatore dello studio BioItaLEE e Direttore del Dipartimento di Oncologia Senologica e Toraco-Polmonare, Istituto Nazionale Tumori Irccs Fondazione ‘G. Pascale’ di Napoli, nella foto all’Asco di Chicago) e dalla professoressa Grazia Arpino (Oncologia Medica, Università Federico II di Napoli) (nella foto).

“Questo lavoro, tutto italiano – commenta Saverio Cinieri, presidente Associazione Italiana di Oncologia Medica (Aiom) – sta riscuotendo un grandissimo interesse a livello internazionale. Definisce un modello di ricerca, che si colloca all’interno dell’oncologia di precisione e apre importanti prospettive per cronicizzare la malattia metastatica. Rappresenta inoltre un segnale di vitalità della ricerca del nostro Paese, che dimostra di saper coinvolgere moltissimi centri in sperimentazioni complesse. Le evidenze ottenute necessitano di ulteriori conferme per poter essere applicate nella pratica clinica quotidiana, ma segnano un punto di partenza importante per l’avvio di ulteriori ricerche”.

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