I codici dell’apprendimento, tra sonno e robot

apprendimento e sonno
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Avete mai pensato alla complessità che sta dietro ad una parola apparentemente semplice come apprendimento? E avete mai riflettuto sul fatto che non solo gli esseri viventi così come li conosciamo possono “imparare” dalle necessità e dalle abitudini ma qualcosa di simile potrebbe capitare anche al patrimonio genetico dell’individuo, nel vasto e ancor non del tutto esplorato mondo dell’epigenetica?

Provare a ridefinire il concetto di apprendimento, superando la visione della lezione che si apprende con l’esperienza, è uno degli obiettivi di un interessante lavoro condotto da due esperti dell’Università di Gand, in Belgio, apparso su Perspectives on Psychological Science.

Stando a quanto segnalano Jan De Houwer e Sean Hughes, occorre allargare la stessa visione che abbiamo dei processi di apprendimento, considerando che in questo percorso vanno inseriti anche gli animali in gruppo e addirittura i robot, per non parlare dell’adattamento al mondo esterno per i geni nel corso dell’evoluzione.

Non bastano più solo scuola e istruzione, quindi, nel determinare l’esperienza che porta alla crescita culturale e sociale dell’individuo. Secondo questa teoria, infatti, non bisogna limitare tutto alla capacità di imparare da quanto avviene e memorizzare le informazioni, ma piuttosto considerare la capacità di apprendere come reazione di un sistema, sia esso organismo vivente, cellula o piuttosto struttura robotica, all’ambiente che lo circonda. In questa nuova chiave, quindi, ci avviciniamo di più a Darwin che ai classici modelli scolastici di diffusione delle informazioni per il singolo.

Perché apprendere, in qualche modo, diventa un vero e proprio adattamento evolutivo che coinvolge praticamente ogni realtà che ci circonda, a prescindere dal percorso didattico che può affrontare. La specie animale o la cellula diventano una sorta di laboratorio di sviluppo che progressivamente si adatta, apprendendo ciò che serve. In questo senso, quindi, andiamo ben oltre i classici percorsi della didattica e le tecniche di training.

Perché anche una pianta, abituandosi a vivere in un ambiente sempre più a rischio di siccità, tende a sviluppare modificazioni del proprio patrimonio genetico che consentano al vegetale di diventare forte e rigoglioso anche in carenza di acqua.

Addirittura, come segnalano gli esperti, ci sarebbe anche una sorta di “lezione” di gruppo che la vita offre con modalità di comprensione volutamente differenziate. L’esempio che portano in questo senso i due studiosi dell’università del Belgio è affascinante, e parte dalla vita sotto il mare: da un lato ci sarà l’animale che sulla base dell’esperienza dovrà guidare il branco lontano dalle aree in cui si trovano possibili predatori, ma dall’altro ci saranno anche numerosi pesci che invece di apprendere questa informazione (delegata in qualche modo alla “guida” che la fa propria), cercheranno di mettersi sempre in coda per seguire chi davanti a loro ha la capacità di trascinarli lontano dal pericolo.

Sempre leggendo l’articolo, anche i robot entrano in questo percorso conoscitivo. La risposta dell’algoritmo guida all’ambiente diventa il motore dell’apprendimento che “educa” il dispositivo a migliorare le prestazioni, anche grazie a percorsi di intelligenza artificiale.

In questa logica di rivisitazione della definizione stessa di apprendimento, almeno per noi umani, rimane comunque una certezza. Il giusto riposo diventa una “conditio sine qua non” per apprendere e farci crescere. A tutte le età, a patto di non esagerare per non perdere opportunità di interscambio con gli altri. Almeno se, ancora una volta, leggiamo il percorso in chiave evoluzionistica.

L’Homo sapiens infatti dormiva meno dei suoi simili preistorici ma socializzava di più. Alla sera, pur in assenza di luce, doveva stare attento ai predatori e magari amava fare gossip. Risultato: oggi riposiamo meno degli altri primati, come se l’evoluzione ci avesse portato a queste risultato per preservarci.

La prova? Anche gli uomini che attualmente vivono come preistorici, cioè senza illuminazione artificiale nell’Amazzonia o in Centro Africa non vanno a dormire quando scende la luce ma stanno alzati a parlare e altro. Dormono quanto noi. Anche se, in termini antropologici, una specie come la nostra dovrebbe riposare poco meno di dieci ore al giorno e quindi ci sarebbe più o meno un trenta per cento di differenza tra quanto atteso e la realtà.

Il nostro dormire meno è adattivo all’ambiente e ci rende più forti nella scala evolutiva. E’ vero comunque che negli ultimi anni si tende a essere deprivati di sonno, questo va evitato anche se dobbiamo riconoscere che abbiamo bisogni diversi dagli altri primati.

Scimpanzé, babbuini, macachi e oranghi dormono dalle dieci alle quindici ore al giorno, contro le 7-8 della nostra specie. A dirlo è una ricerca apparsa qualche tempo fa su American Journal of Physical Anthropology che confronta il sonno di trenta diverse specie di primati e ci mette in fondo alla classifica, ben lontani dall’aoto dalle tre strisce che arriva a diciassette ore di riposo su ventiquattro.

In base alla ricerca, poi ci sono anche profonde differenze sul piano della qualità del sonno: noi privilegiamo il sonno Rem, quello in cui gli occhi si muovono e si sogna, rispetto a quello più profondo, ovvero non-Rem.

Ripercussioni? Uno dei ruoli fondamentali e più studiati del sonno Rem è quello di favorire i processi di apprendimento, in particolare favorisce il consolidamento della memoria a lungo termine. Tuttavia anche il non-Rem interviene in questi processi è probabilmente necessario che ci siano entrambi per un buon “storaggio” della memoria.

La regolare alternanza tra non Rem e Rem facilita il passaggio delle “memorie” dall’ippocampo alla regione frontale. Qualche si sia la definizione che vogliamo dare all’apprendimento, insomma, non dimentichiamo di riposare bene e per il tempo giusto. Così aiuteremo il nostro benessere psicologico e cerebrale.

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