Cambio di sesso, la questione dei farmaci

pubertà disforia di genere
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Non è semplice affrontare il tema della disforia di genere: parliamo di giovanissimi che non si riconoscono nel corpo che hanno da quando sono nati, e si trovano ad affrontare un percorso complesso, irto di sfide e complicato dal pregiudizio. Un percorso fatto di analisi, sofferenza e (in alcuni casi, come vedremo) terapie farmacologiche.

La prima lettera

A riportare sotto i riflettori la questione dei farmaci per cambiare sesso è stata nei giorni scorsi una lettera al ministro della Salute della Società psicoanalitica italiana. Nella missiva si esprime “grande preoccupazione per l’uso di farmaci finalizzato a produrre un arresto dello sviluppo puberale in ragazzi di entrambi i sessi a cui è stata diagnosticata una disforia di genere, cioè il non riconoscersi nel proprio sesso biologico”.

La posizione degli endocrinologi

Un documento respinto dagli endocrinologi, che giudicano infondate dal punto di vista scientifico e ingiustificatamente allarmistiche le posizioni della Società psicoanalitica italiana. Anche in questo caso gli specialisti hanno preso carta e penne, indirizzando una  lettera al presidente del Consiglio Giorgia Meloni e al ministro Orazio Schillaci in cui illustrano le proprie posizioni.

La Società Italiana di Endocrinologia (Sie), la Società Italiana di Endocrinologia e Diabetologia Pediatrica (Siedp) – insieme alla Società Italiana Genere, Identità e Salute (Sigis), la Società Italiana di Pediatria (Sip), la Società Italiana di Andrologia e Medicina della Sessualità (Siams), e l’Osservatorio Nazionale sull’Identità di Genere – si schierano contro le dichiarazione della Società Psicoanalitica Italiana sul rischio di danni fisici e psichici dei farmaci bloccanti la pubertà nei bambini e negli adolescenti con disforia di genere, cioè che soffrono perché non si riconoscono nel sesso di nascita.

“Riteniamo che la posizione della Spi contenga errori di interpretazione e imprecisioni in contrasto con i dati scientifici ad oggi disponibili – affermano Annamaria Colao, presidente Sie, e Mariacarolina Salerno, presidente Siedp – Gli studi di follow up dimostrano che i trattamenti con farmaci bloccanti la pubertà sono reversibili, consentono di guadagnare tempo per riflettere in modo consapevole sulla scelta di cambiare sesso e sono in grado di ridurre in modo significativo depressione, rischio suicidario e comportamenti autolesivi negli adolescenti trattati”.

Farmaci caso per caso

Gli esperti precisano che i farmaci vengono somministrati sempre in casi selezionati, ovvero pazienti con profondo disagio, approfonditi e studiati da un’equipe multidisciplinare, come descritto dalla Determina in materia dell’Agenzia italiana del farmaco.

“Il trattamento con i farmaci bloccanti la pubertà in adolescenti con disforia di genere non è peraltro in sperimentazione, come erroneamente descritto dalla Spi, ma è stato autorizzato dal Comitato Nazionale di Bioetica nel 2018 e approvato da Determina dell’Aifa nel 2019, nonché sostenuto da raccomandazioni scientifiche anche internazionali e già ampiamente utilizzato nella pratica clinica”, puntualizzano Colao e Salerno.

I paletti e l’allarme

Gli interventi per lo sviluppo del blocco puberale sono prescrivibili solo a pubertà già avviata su adolescenti che abbiano già iniziato lo sviluppo puberale (stadio 2 di Tanner).

Gli endocrinologi contestano anche la considerazione secondo cui sarebbe sbagliato basare la valutazione dell’identità di genere sulle affermazioni del soggetto: l’auto-percezione di sé è infatti anche alla base di tutte le valutazioni in psicologia, anche all’interno dello stesso approccio psicoanalitico.

“Tutto questo – concludono Colao e Salerno – rischia di creare un allarme ingiustificato nei ragazzi con disforia di genere in cui è presente una profonda sofferenza psichica legata anche al pregiudizio e allo stigma di chi nega che l’identità sessuale possa essere incongruente con il sesso assegnato alla nascita”.

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