Medici italiani sottopagati, ma non è solo questione di stipendio

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Siamo alla vigilia dell’avvio degli incontri per il nuovo contratto per la dirigenza medica. Il prossimo 2 febbraio si apriranno le danze della negoziazione in Aran (Agenzia per la Rappresentanza negoziale delle Pubbliche amministrazioni). Una fase che interessa circa 120mila medici.

Ma cosa chiedono i medici italiani che, stando ai dati Ocse pubblicati nel report “Health at a Glance: Europe 2022”, nel 2020 guadagnavano meno dei colleghi europei ma percepivano una retribuzione lorda 2,9 volte superiore a quella media dei lavoratori del nostro Paese? Basterà aumentare la cifra in busta paga a fine mese per ripagare le fatiche e i rischi di un mestiere che sempre più spesso finisce sulle prime pagine dei giornali per aggressioni e denunce da parte dei pazienti? Lo abbiamo chiesto a Pierino Di Silverio, segretario generale Anaao-Assomed.

Come commenta i dati dell’Ocse rispetto alle retribuzioni degli specialisti italiani?
Due annotazioni da fare. Il report Ocse si riferisce alle retribuzioni lorde medie. Inoltre solo il 7% dei medici dipendenti del Ssn raggiunge ruoli apicali di carriera. Ciò fa capire la discrepanza che può esserci tra lo stipendio di un dirigente medico e di quello dei colleghi che non ricoprono ruoli apicali.

Abbiamo poi la questione della tassazione, che non viene considerata dal report. In Italia è più elevata che in tutta Europa. Dalla retribuzione lorda dobbiamo togliere il 41% di tasse. Cosa che non avviene in Germania, Francia e Spagna ad esempio.

Allora dove si colloca la retribuzione dei dirigenti medici italiani?
Al gradino più basso rispetto alle altre nazioni europee. Già ora, con il valore di 2,9 siamo dietro a Germania (3,4). Togliendo la tassazione il livello scende ulteriormente. Facciamo un esempio di un lavoratore medio che guadagna diciamo 1.500 euro al mese. Un dirigente medico che entra in ospedale oggi ne percepisce 2.500. A cui deve essere decurtata la quota necessaria per l’assicurazione professionale (che non compare per le altre professioni). Senza contare che le ore lavorate dai dirigenti medici sono molte di più rispetto a quelle di un normale impiegato. È qualcosa di indecoroso.

Ma perché ci troviamo in questa situazione?
Lo stipendio dei dirigenti non è stato sempre così basso. Il problema è che per 10 anni il contratto non è stato rinnovato. E al rinnovo non è stato corrisposto quanto era stato perduto in quei 10 anni. Pensiamo al potere d’acquisto perso in 10 anni, a fronte dell’inflazione e del caro-vita crescenti. Se tutto andrà bene contrattualmente, occorreranno altri 10 anni per recuperare quanto perduto in passato.

I dirigenti medici cosa chiedono in quanto a retribuzione?
I fondi per questi contratti da rinegoziare sono stati stanziati due anni fa. Sono circa 650 milioni di euro, che non servono a rimpinguare in maniera dignitosa le tasche dei medici. Si parla di aumenti medi di 100-180 euro lordi. Parliamo del nulla. In questo momento storico ci aspettiamo che il nuovo contratto abbia un valore ancora più importante di quello economico: il riconoscimento del valore professionale e del tempo.

Ci spiega meglio cosa intende?
Le condizioni di lavoro acquistano oggi un’importanza strategica, pari a quelle economiche. Non è vero che il medico pensa solo allo stipendio. Pensa a essere retribuito il giusto e ad avere un tempo (che è impagabile) da dedicare a se stesso e alla propria famiglia. Da Covid in poi questo tempo è sparito.

Il budget da dedicare all’incremento degli stipendi però è ormai definito, e sul lato retribuzioni più di tanto non si potrà agire in fase di contrattazione. Quali sono invece altre leve su cui si potrebbe agire?
In primis le condizioni di lavoro, che devono mutare integralmente. Il contratto attuale è una gabbia a tutti gli effetti. Non salvaguarda i diritti in quanto è colmo di postille che permettono alle aziende sanitarie di utilizzare il medico come reputano più opportuno. È un contratto che non gratifica e non valorizza la professionalità in termini di possibilità e di tempi di carriera.

Inoltre non permette la flessibilità di spostamento tra aziende che è proprio di ogni sistema democratico e professionale e che è alla base di una sana competitività. Ancora, il contratto non riconosce il ruolo del sindacato come controparte del datore di lavoro. Il sistema di relazioni sindacali sono ormai ridotte a lumicino.

Il contratto firmato un anno e mezzo fa è stato applicato solo nel 38% delle aziende italiane. Perché a oggi non esiste un ‘meccanismo punitivo’ per chi non applica il contratto e non esiste un modo in cui il sindacato può opporsi a questa condotta.
Ecco allora i punti su cui la contrattazione dovrà spingere:
• relazioni sindacali da riacquisire;
• condizioni di lavoro (come prospettiva di carriera e tempo) da mutare integralmente;
• riconoscimento del lavoro e della carriera professionale incrementando i finanziamenti extra-contrattuali anche in riconoscimento del lavoro disagiato, che oggi non è considerato.

Molti sono i fronti aperti che lei ha elencato. Che margini di dialogo vede per ottenere quanto la categoria desidera?
Bisogna rimodulare alcuni principi che sottendono al contratto, definendo l’esigibilità del contratto stesso da parte delle aziende sanitarie. Ritengo che i margini dipendano dalla volontà delle parti. Noi siamo disponibili a firmare il nuovo contratto. Ma se le richieste non dovessero trovare accoglimento, non lo firmeremo.  Mi auguro però che, essendo Aran una controparte tecnico-istituzionale, sia interesse comune che questo nuovo contratto sia il migliore possibile e venga siglato nell’ottica di rendere la nostra professione di nuovo appetibile.

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