Lavoro senza pause, le ragioni di una scelta (sbagliata)

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Disequilibrio. Con le richieste che superano le risorse. Sul lavoro, restringendo al massimo le variabili, questa situazione conduce allo stress cronico, al malessere che si scarica sulla pressione arteriosa, sui problemi di stomaco, sulla cefalea che rovina le giornate, sull’insonnia che non lascia requie.

Apparentemente, programmare pause nel corso della giornata lavorativa potrebbe rivelarsi utile per limitare i rischi di comparsa di tensione emotiva cronica con tutte le conseguenze sopracitate. Ma è davvero così?

Le persone puntano davvero a fermarsi più volte durante la giornata, o piuttosto la pressione nell’attività professionale diventa il motore della scelta che fa proseguire con il lavoro, senza sosta? A far balenare questa possibilità, che pare andare contro la logica che invece presupporrebbe qualche stop più o meno programmato, per sostenere meglio i ritmi dell’attività, è una curiosa ricerca degli esperti dell’Università di Waterloo, pubblicata su Journal of Business and Psychology.

Gli esperti sono partiti da un’osservazione ottenuta proprio sul luogo di lavoro: nonostante esistesse il desiderio di fermarsi, molti dipendenti continuavano a lavorare, con conseguente stress, rendimento magari non ottimale e problematiche di benessere.

Per giungere a questa conclusione sono stati esaminati poco più di 100 dipendenti, cui è stato chiesto perché si erano presi una pausa o perché avevano rinunciato a questa sosta sul lavoro.

Poi sono stati esaminati quasi 300 collaboratori che in una settimana lavorativa hanno riferito se facevano pause e quante erano queste soste ogni giorno, mettendo in correlazione questi dati con la percezione del carico di lavoro e la sensazione di benessere, a partire dalla fatica per giungere fino all’insonnia.

Ebbene, nonostante le pause siano chiaramente consigliate e abbiano rivelato in studi di medicina del lavoro la loro utilità, dall’analisi appare che molte persone preferiscono evitarle per concludere la loro attività e soprattutto avere un buon giudizio da parte dei superiori. Il tutto, alla faccia del benessere dei collaboratori, cui a volte si chiede troppo.

O, magari, sono loro stessi a percepire di dover esagerare con il lavoro, arrivando a vere e proprie forme di sofferenza fisica e psicologica che andrebbero invece evitate.
In termini di medicina del lavoro e di stress professionale, questo studio aggiunge un piccolo tassello che fa ulteriormente riflettere.

Fermarsi, e non solo per sgranchire le gambe ma anche per rilassare la mente, può essere davvero utile per limitare i rischi di “ammalarsi” di attività. Torniamo quindi al disequilibrio tra le richieste e le nostre risorse. Se si vive questa situazione, una condizione emotiva come la paura di perdere il lavoro o il timore di profondi mutamenti in ambito professionale possono tradursi in sintomo fisico o malattia vera e propria.

Il problema è che, se siamo attrezzati per rispondere a superlavoro occasionale, quando la condizione di stress si mantiene nel tempo ed è prolungata, cioè esiste uno stress cronico, l’attivazione del sistema nervoso autonomo che regola “senza controllo” le funzioni dei nostri organi permane, e di conseguenza compare il malessere.

Stanchezza, mal di testa, cuore che batte forte, disturbi gastrointestinali, difficoltà a riposare e dolori muscolari possono diventare presenti anche in momenti di apparente tranquillità e senza che vi sia una malattia che li possa giustificare.

Il singolo e l’organizzazione possono fare molto per limitare questa sorta di patologia professionale. Magari sfruttando anche le pause. Per scambiare una parola, distrarsi, pensare ad altro. Senza cedere alla tensione che ci porta a responsabilizzarci oltremodo sul posto di lavoro.

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