Challenge social e Youtuber finiscono nell’occhio del ciclone dopo la vicenda di Casal Palocco – frazione di Roma – che è costata la vita a un bimbo di 5 anni. Una tragedia che vede protagonisti cinque ragazzi romani su una Lamborghini noleggiata per una challenge online: si sono scontrati con la Smart in cui viaggiava la piccola vittima con la sua famiglia.
Noti col nome di ‘The Borderline‘, gli Youtuber hanno 600.000 follower e un fatturato che pare si aggiri intorno ai 200.000 mila euro guadagnati in sei mesi. Fortune Italia ha voluto confrontarsi su questa vicenda con Giuseppe Lavenia, psicologo e psicoterapeuta, presidente dell’Associazione nazionale dipendenze tecnologiche Di.Te, che ci ha fornito un quadro chiaro rispetto alla condizione che vivono i giovani oggi, e sul ruolo che dovrebbero rivestire gli adulti, spesso assenti.

Partiamo dal nome: gli Youtuber scelgono di chiamarsi ‘the Borderline’. Quanto i ragazzi di oggi si identificano nelle situazioni ‘al limite’?
I ragazzi di oggi sono al limite, come le loro vite. Quello che sta passando è il concetto che per esistere bisogna stare in vetrina, mostrare e mostrarsi, con il tramite della tecnologia. Li definisco ‘adolescenti digitalmente modificati’.
Pensiamo a quello che è successo: questi Youtuber stavano creando contenuti digitali, probabilmente inconsapevoli di star vivendo l’esperienza ‘anche’ nella realtà. È questo meccanismo dissociativo che porta a non considerare i rischi.
Dal punto di vista neurologico, diremo che fino ai 21 anni la struttura celebrale – il sistema limbico – non è completamente formata, e la zona deputata al controllo degli impulsi, l’amigdala, non è matura. In altre parole: se do uno strumento per adulti a un adolescente, lo espongo a un rischio che lui potrebbe non saper prevedere, o gestire. Quindi siamo anche noi adulti che dovremmo iniziare a formarci. Io sostengo la necessità di introdurre un patentino digitale, come per la guida dell’automobile. Ci vorrebbe un tutor, un genitore supervisore che controlli quello che fanno i ragazzi.
Nel caso di specie parliamo di ventenni che realizzavano contenuti, e i genitori vedevano i video e i materiali prodotti, nulla di aggressivo ma erano comunque contenuti ‘al limite’.
Cresce il fenomeno delle challenge estreme, perché è così affascinante e quali rischi comporta?
Gli adolescenti sono per definizione attratti dalle sfide, sono portati a rischiare, mettersi alla prova per definire la propria identità. Però ora, attraverso la rete, le challenge possono essere diffuse e il mito della viralità e dei soldi facili possono portare i ragazzi ad alzare sempre di più l’asticella del pericolo.
Guardando ai dati, in questo momento in Italia un ragazzo su cinque fa una challenge all’anno, e uno su dieci ha rischiato la vita accettandone una pericolosa. Il fenomeno è ampiamente diffuso, ma ce ne accorgiamo solo quando avvengono fatti così drammatici. Le sfide formano alla sopravvivenza, permettono di identificarsi e di comprendere i propri limiti, ma il senso del limite non ce l’abbiamo almeno fino ai 21 anni.
I The Borderline sono Youtuber e ‘professionisti del web’, hanno 600.000 follower, ma restano ragazzi di vent’anni che fanno i conti con una ‘tarda adolescenza’?
Sono ragazzi che devono gestire il successo, che non è una cosa semplice. Di solito ci sono i manager che aiutano in questo, anche i grandi artisti, perché è fondamentale questo ruolo di mediazione. Trovarsi invece a vent’anni ad avere dei follower che ci dicono che siamo bravi e belli, mette in gioco la dinamica del gruppo, l’idea di soddisfare i follower spinge a sostenere le sfide: erano i The Borderline a mettersi a rischio. Rispetto poi al fatto che, a quanto pare, alcuni di loro abbiano continuato a riprendere la scena anche dopo l’incidente, dobbiamo considerare che la tecnologia viene utilizzata come un filtro: continuare a riprendere può semplicemente rappresentare un modo per gestire il trauma, per impedirsi di affrontare il dolore. È come se nella nostra mente ci fosse l’illusione che se non condividi non esisti, ma allo stesso tempo un’esperienza mediata dal device è come se non fosse vissuta. E’ la fuga dalla realtà: se filmo non vivo, e non soffro per quello che succede.
“Non siamo ricchi ma ci piace spendere per farvi divertire, e vogliamo donare un milione a uno di voi”, si legge nella presentazione dei The Borderline su Youtube. Si sentono spericolati e benefattori, copiando anche in questo il loro modello, l’americano Mr Beast. È un binomio che può reggere?
In realtà questo meccanismo del doppio legame – ti amo ma no voglio stare con te, non vi chiedo i soldi ma dovete sostenermi – è un messaggio paradossale e contraddittorio. Ci credo al fatto che volessero davvero condividere, donare l’esperienza a chi non poteva permettersela: ‘non guiderai una Lamborghini, la guidiamo noi e tu vivi l’esperienza’, ma di fondo c’è comunque un’idea di marketing, sponsor, guadagni, visto che si parla di un fatturato di 200mila euro.
E poi c’è da considerare il dato del distacco dalla realtà: pensare che la vita si riduca all’ostentazione è delirante, come lo è pensare di stare cinquanta ore in una macchina. Dall’altro lato c’è la necessità di riempire le giornata con queste sfide continue, dare un senso al proprio vivere con l’idea di essere popolari. E non dimentichiamo che giravano con quella macchina già dal giorno prima, tutti li vedevano e nessuno li ha fermati, e qui ci sarebbe da fare una considerazione più ampia anche sulla sicurezza delle nostre strade.
I ventenni di oggi si affacciano all’età adulta con un minor bagaglio di consapevolezza?
I ragazzi stanno male, la loro salute mentale è in fortissima crisi: il 50% non immagina e non desidera il futuro, e il 71% quando lo immagina lo fa con ansia. Penso alla grande fatica del risveglio, al senso di utilità mancata, e tutta questa attività online li fa pensare meno. In Italia sono circa 200.000 gli hikikomori, i ragazzi che vivono isolati nelle loro stanze. Per portare un esempio pratico, a novembre abbiamo aperto una comunità per minori socialmente isolati, a Lucca. Alla fine del mese i 20 posti disponibili – per ragazzi dai 14 ai 18 anni – erano già esauriti. Il nostro intervento, in questo caso, consiste nel cercare di riportarli nella realtà, rassicurandoli sul fatto che possano stare al mondo, perché molti sono così abituati a stare dietro a uno schermo, sono Youtuber, ma non sono abituati a vivere in gruppo. Se hanno una difficoltà, magari un piccolo difetto, non si sentono accettati dalla società e dietro allo schermo si sentono più protetti.
Quanto pesa il tema della recente esperienza pandemica sulla capacità di valutazione e di giudizio di questi ragazzi?
La pandemia ha forzato tanto la salute mentale, ha digitalizzato anche chi non doveva esserlo, e penso che il 40% dei bambini fra i 4 e i 5 anni hanno oggi un proprio cellulare. Poi c’è il fatto che noi adulti stiamo facendo passare l’idea che il mondo sia pericoloso. Di pari passo va l’aumento dell’uso di sostanze, del malessere e dell’autolesionismo: un adolescente su tre tende a praticarlo, e tutti i dati post Covid ci dicono che non abbiamo gestito bene la fase pandemica, che è passata ma ha lasciato questo grande disagio sociale, se è vero che in Europa, nella fascia d’età 9/19 anni, la seconda causa di morte è il suicidio.
Non c’è il rischio che, abituati a vivere in un mondo virtuale, si perda il senso del pericolo e della realtà?
Il rischio è concreto, assistiamo a un completo distacco dalla realtà: cresce il senso di onnipotenza dei ragazzi. Nel caso di cronaca, questi giovani pensavano di rendere felici i loro follower, ma non hanno considerato che quello che stavano facendo avveniva nella vita reale e comportava anche rischi reali.
Chiudete Internet: da più parti si chiede uno stop per Youtube, ma è davvero questo il problema?
Non avrebbe nessun senso, a parte che è impossibile ed è pura demagogia. Non devi bloccare la tecnologia, è come se avessero deciso di togliere la televisione, negli anni ’60, perché poteva danneggiare la vista.
Bisogna invece creare consapevolezza digitale, sarebbe indispensabile attivare un percorso di apprendimento prima dell’accesso alle piattaforme, anche obbligando i genitori a controllare i propri figli. Magari con una norma che punisca il genitori che si disinteressano della vita digitale dei figli. Impariamo a chiedere loro come stanno, e come va la loro vita, anche quella digitale.