Quanto ci piacciono le previsioni. Viviamo in un’epoca di incertezza di problematiche scientifiche che cercano una soluzione definitiva, o quanto meno un barlume di chiarezza in più. Ma poi, all’atto pratico, molte delle nostre percezioni e conseguenti tensioni emotive sono figlie dell’informazione e del timbro comunicativo di chi scegliamo come partner per fornirci notizie. Un esempio? Pensate al cambiamento climatico.
C’è chi nega recisamente le informazioni che giungono dai dati disponibili e c’è chi invece preconizza una sorta di “apocalisse”. Queste due posizioni, è ovvio, sono estremistiche. Ma la scienza deve muoversi e informare per la stragrande maggioranza delle persone, non certo agli estremi della curva a campana.
Certo è che lo sguardo sul domani fatica a lasciare tranquilli. Le previsioni dell’Oms dicono che tra il 2030 e il 2050 il cambiamento climatico provocherà circa 250mila morti in più all’ anno per malnutrizione, malattie come malaria e diarrea e “stress da caldo”.
Le stime dicono anche che entro il 2030 i costi dei soli danni diretti del “climate change” per la salute arriveranno a 2 e 4 miliardi di dollari l’anno. E, come se non bastasse, sarebbero oltre 200 le malattie infettive a trasmissione interumana esacerbate dai mutamenti climatici, che peraltro hanno anche reso maggiormente temibili numerose situazioni potenzialmente gravi.
A segnalarlo è una ricerca pubblicata su Nature Climate Change. Insomma, c’è di che far tremare i polsi. Ma alla fine, fatti salvi gli estremi della curva che abbiamo provato a definire nei loro pensieri, il cambiamento climatico va comunicato? E quanto? E come? Il linguaggio informativo dovrebbe puntare ad ammonire sui rischi o essere piuttosto tranquillizzante?
A tutte queste domande ha provato a rispondere una ricerca molto originale, condotta proprio per capire se e come il timbro informativo sul cambiamento climatico possa contribuire a modellare, in senso di sottovalutazione o di timore, il pensiero delle persone. L’incarico che ne esce, per chi si occupa di comunicazione, è sicuramente stimolante. Ma anche gravoso. Perchè ci ricorda che se si vuole che la comunicazione abbia il massimo impatto, le persone che la ricevono devono percepire che c’è ancora qualcosa che possiamo fare al riguardo per fare la differenza.
Non basta, insomma, creare timori o sottovalutare, senza alcuna proposta. Ma bisogna offrire speranza di soluzione. Veniamo allo studio, che è stato condotto da Christofer Skurka, Jessica Myrick e Yin Yang dell’Università statale della Pennsylvania pubblicato su Climatic Change.
Dall’analisi emergono sostanzialmente due impostazioni di base, con quella che vede messaggi sostanzialmente negativi ed ansiogeni dominare la discussione mediatica sul mutamento climatico. L’innalzamento delle temperature medie viene visto come un fattore che può pesantemente incidere sul benessere e sulla prospettiva di sviluppo economico e sociale, oltre che per l’ambiente. E, quindi, capire cosa può accadere in risposta agli stimoli informativi diventa basilare per migliorare i messaggi e di conseguenza le emozioni, le convinzioni, addirittura il comportamento delle persone.
Due le analisi effettuate dagli esperti americani. Nel primo i soggetti compresi nella ricerca sono stati esposti a tre giorni di notizie negative sul clima, nel secondo si sono osservate le reazioni a una settimana di messaggi su Twitter che riportavano messaggi preoccupanti. Risultato: ovviamente ascoltare notizie non proprio incoraggianti può associarsi a una maggior paura e ad una minor speranza. Ma col tempo, queste prime sensazioni tendono a correggersi, sia perché progressivamente ci si limita ai soli titoli delle news (come accade prolungando la “stimolazione” sul social media), sia perché il timore tende a stabilizzarsi con il passare dei giorni. Ma soprattutto, col tempo i timori hanno lasciato spazio all’impegno. Il che significa che, alla fine, parlare di cambiamento climatico aiuta a rendere partecipe la popolazione di quanto può accadere. E quindi a farsi una propria idea. E ad impegnarsi.
Messaggio finale: continuiamo a informarci. Alla fine, per noi sarà sempre un vantaggio sapere. Starà poi a noi discriminare, interpretare e scegliere come comportarci. Ma con cognizione di causa. A prescindere da come la pensiamo sul “climate change”.