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Cervello: tra passi avanti e misteri da svelare

Il cervello e le malattie che lo minacciano.
Adyen Articolo
Velasco25

Conosciamo davvero il nostro cervello e le malattie che possono aggredirlo? Parliamo di un organo che usa circa il 20% dell’ossigeno che ci serve per vivere, pesa più o meno 1,3 kg ed è costituito da circa 100 miliardi di neuroni.

A minacciarlo, una serie di patologie “insidiose per natura, in quanto spesso si manifestano con sintomi molto generici, che è facile sottovalutare o ignorare del tutto. Inoltre a differenza di altre patologie non provocano dolore, un campanello d’allarme che resta silenzioso. In considerazione dell’incidenza, direi che la malattia di Alzheimer, il morbo di Parkinson e la sclerosi laterale amiotrofica sono le tre più pericolose”.

Ad affermarlo è Domenico Praticò, professore di Scienze neurali e Founding Director dell’Alzheimer’s Center alla Temple University di Philadelphia, che fa il punto sulle ultime scoperte e le sfide per la ricerca e la cura delle malattie neurologiche.

Cervello: il futuro delle cure per Robert Nisticò (Aifa)/VIDEO

In Italia si stimano 1,3 milioni di casi di demenza di cui poco più di 600mila con Alzheimer. Che peso hanno i geni e lo stile di vita?

La malattia di Alzheimer può essere distinta in due forme: familiare e sporadica. La variante familiare, secondaria a una mutazione genetica autosomica dominante, rappresenta solo una piccola percentuale di casi (4-5%). La forma idiopatica, più diffusa, resta una sfida, anche se oggi abbiamo identificato alcuni fattori di rischio di natura genetica.

Il più noto è il gene per l’apolipoproteina E (apoE) nella variante 4. Studi recenti ne hanno identificati altri, come le varianti del gene TREM 2 e ABCA7.

È importante sottolineare che essere portatori di questi geni non vuol dire che la malattia si svilupperà con certezza, ma comporta solo un aumento delle probabilità. Ed è proprio in questi casi che l’ambiente e lo stile di vita hanno un peso importante.

I dati che abbiamo a disposizione indicano che lo stile di vita, come per esempio la dieta quotidiana, hanno un ruolo notevole per lo sviluppo della malattia.

Lei si occupa di ricerca e cura dell’Alzheimer, quali sono a suo parere le novità più interessanti?

Negli ultimi 5 anni abbiamo assistito a una vera e propria rivoluzione nella nostra conoscenza su questa malattia.

La lista delle novità sarebbe molto lunga, ma voglio citare alcuni elementi: la disponibilità di tecniche di scansione radiologica (Pet) in grado di misurare con accuratezza la quantità di beta amiloide e proteina tau nel cervello di un paziente con disturbi della memoria (o Alzheimer).

Lo sviluppo di marcatori biologici periferici (nel sangue) che predicono il rischio di Alzheimer. La scoperta del ruolo delle risposte infiammatorie (umorali e cellulari) nel cervello nella patogenesi della malattia.

E, infine, l’identificazione di fattori di rischio modificabili, molti dei quali sono collegati alle malattie metaboliche (diabete mellito e obesità).

Iniziamo a vedere le prime terapie con una qualche efficacia contro le forme iniziali dell’Alzheimer, che ne pensa?

Dopo anni di intense ricerche, nel luglio 2023 in Usa è stato approvato il primo farmaco per l’Alzheimer che colpisce un processo patologico della malattia e non un sintomo.

Parliamo di lecanemab, un anticorpo che va ad attaccare la beta amiloide depositata nel cervello del paziente e, attraverso questo meccanismo, rallenterebbe il declino cognitivo.

Un anno dopo, nel 2024 un secondo farmaco, donanemab, simile per meccanismo di azione al precedente, ha ottenuto l’approvazione degli organismi regolatori americani per i casi di Alzheimer nella fase iniziale.

Entrambi vengono somministrati in via endovenosa ogni due settimane. Nonostante esistano delle controversie su questo approccio terapeutico, al momento c’è un cauto ottimismo.

Ci sono pazienti che, una volta deceduti, mostrano le modificazioni cerebrali tipiche dell’Alzheimer ma in vita non presentavano sintomi, come mai?

È vero, da alcuni anni sono stati descritti casi di individui che, pur avendo una notevole quantità di placche nel cervello al momento della morte, non avevano mai avuto problemi di memoria in vita. Sono casi rari, ma molto affascinanti dal punto di vista medico.

Nonostante ancora non sappiamo spiegarli completamente, tengo a precisare che non sminuiscono l’importanza patogenetica dell’amiloide o della proteina tau. Tra le varie teorie proposte per questi casi, figurano la riserva cerebrale e cognitiva e i fattori genetici.

La prima ipotesi suggerisce che individui che hanno una capacità cognitiva superiore, dovuta per esempio all’educazione scolastica o al tipo di lavoro intellettualmente impegnativo, avrebbero la capacità intrinseca di “tollerare” le placche meglio di altri.

La seconda invece evoca la presenza di fattori genetici protettivi. Ci sarebbe una terza teoria, che chiama in causa la capacità di questi soggetti di generare cellule staminali capaci di ripopolare le aree del cervello affette dalla malattia.

Qualunque sia la verità, grazie a queste persone speciali oggi si stanno studiando nuove terapie che potrebbero aumentare la resilienza cerebrale.

Uomini e donne: il cervello invecchia in modo diverso? E se sì, come mai?

Anche se da anni c’erano delle evidenze indirette, studi più recenti hanno fornito dati molto interessanti anche sull’invecchiamento cerebrale tra i due sessi.

Ad esempio, oggi sappiamo che con l’età la massa cerebrale dell’uomo si riduce più velocemente di quella della donna.

I dati a disposizione indicherebbero che alla base di questa differenza c’è il metabolismo cerebrale, cioè la maniera con cui il cervello utilizza e produce energia.

È stato dimostrato che, in generale, a parità di età il cervello della donna ha un metabolismo più elevato rispetto a quello dell’uomo.

Questo spiegherebbe perché le donne hanno una capacità di attenzione spesso più acuta e ottengono risultati migliori nei test cognitivi rispetto ai coetanei maschi.

Professore, lei ha sottolineato recentemente l’importanza di parlare ai bambini della malattia che ruba i ricordi dei nonni. Come farlo nel modo giusto?

In questi casi una delle regole fondamentali è dire la verità, anche se saremmo tentati di non farlo per un senso di “protezione” verso i piccoli.

Quindi se il nonno (o una persona anziana della famiglia) soffre di Alzheimer, bisognerebbe dare ai bambini informazioni generali sulla malattia, chiarendo per esempio che non è contagiosa e non colpisce necessariamente tutti quando invecchiano.

Inoltre, non essendoci una cura, con il tempo i sintomi potrebbero anche peggiorare. Ma allo stesso tempo bisogna incoraggiare e rassicurare il bambino, facendogli capire che possiamo aiutare gli anziani affetti dalla malattia stando loro più vicini e non isolandoli, ma coinvolgendoli in attività e interagendo con loro senza paura ma con amore.

spiega come difendere il cervello dalle malattie che lo minacciano.
Domenico Praticò

A suo parere dalle tecnologie può arrivare un contributo nella lotta alle demenze?

In generale, i progressi in diverse tecnologie computazionali, tra cui l’intelligenza artificiale e il deep learning, stanno offrendo nuove opportunità di sviluppo diagnostico in molte aree mediche.

Per quanto riguarda l’Alzheimer, queste tecnologie ad esempio stanno migliorando la capacità predittiva dei mezzi diagnostici legati alle immagini cerebrali (Tac, Rmn), in quanto ci consentono di analizzare dati complessi ed estrarre informazioni preziose, che normalmente richiederebbero molto tempo, con tempistiche molto più brevi.

Utilizzando queste tecnologie oggi siamo in grado di identificare i biomarcatori di “neuroimaging” che rivelano la patologia di base e la progressione della malattia, facilitando strategie di trattamento personalizzate.

Vorrei accennare alle nuove tecnologie riguardanti lo studio dei marcatori biologici periferici e il profilo neurochimico che da esso ne deriva: ci stanno aiutando a identificare quella che in gergo chiamiamo l’impronta molecolare (molecular signature) della malattia di Alzheimer nelle sue fasi iniziali.

Neuralink e altre società stanno investigando sul potenziamento tecnologico. Il famoso chip nel cervello potrebbe essere un alleato anche contro la neurodegenerazione?

Si tratta di un’area nuova di ricerca per la neurologia. Da un paio d’anni c’è stato uno sviluppo importante per quanto riguarda l’intersezione tra computer e corpo umano.

Questa tecnologia, sviluppata per aiutare pazienti con problemi neurologici spesso di natura motoria, ha consentito per esempio di tradurre/trasportare un comando nervoso dal cervello su una protesi artificiale restituendo un’attività motoria altrimenti impossibile.

Quindi per soggetti con una paralisi motoria questa tecnologia offre buone possibilità “terapeutiche”. Nel caso di Neuralink, la loro tecnologia si basa sull’inserimento di sottilissimi elettrodi nel cervello, capaci di registrare e anche stimolare area cerebrali di interesse clinico.

Al momento è troppo presto per capire se questo approccio avrà un valore per le malattie neurodegenerative in generale. L’unica forma di neurodegenerazione che potrebbe averne beneficio è il Parkinson.

Non dimentichiamo che la stimolazione del nucleo pallido (un’area del cervello coinvolta nel Parkinson) con un elettrodo inserito sotto la pelle viene usata da alcuni anni nei pazienti che non rispondono più alla terapia classica dopaminergica, con risultati positivi almeno in alcuni casi.

Posso farle una domanda personale: cosa teme di più, invecchiando?

Spesso la paura di invecchiare nasce dalle concezioni negative associate con questa fase della vita. Ad esempio, la società moderna tende a considerare la vecchiaia come qualcosa di negativo.

Pregiudizi sul posto di lavoro, dove spesso esistono atteggiamenti che tendono a svantaggiare i dipendenti anziani, o esperienze personali negative a volte possono portarci a credere che questa fase sia molto difficile.

Tutte queste considerazioni non mi appartengono. Io non ho paura di invecchiare.

Personalmente considero l’invecchiamento come una fase della vita che, come tale, ha aspetti positivi e negativi. Tocca a noi prepararci nella ‘mezza età’ per godere di un invecchiamento il più possibile sano.

Parafrasando Rita Levi-Montalcini, che disse “io non sono il corpo: io sono la mente”, non dobbiamo dimenticare che anche se il corpo invecchia, mantenere una mente giovane sarebbe un ottimo risultato, che molti di noi possono ottenere.

Quindi è l’invecchiamento della mente a farmi paura. Ma ognuno di noi può fare qualcosa per prevenirlo o rallentarlo.

Troveremo mai una cura in grado di invertire il processo e proteggerci dalla demenza?

Questa è una domanda molto interessante, specie oggi che le cosiddette terapie anti-aging sono tanto di moda.

Bisogna chiarire la differenza tra anti-aging e healthy aging. Nel primo caso il goal è evitare di apparire “vecchi”, nel secondo è mantenere l’abilità funzionale e il benessere del nostro corpo durante l’invecchiamento.

Quindi, più che una terapia per invertire un processo, io intravedo delle iniziative che ognuno di noi può intraprendere per invecchiare in salute (healthy aging).

Oggi sappiamo che alcuni comportamenti fin da giovani, o almeno a partire dalla mezza età, sono fondamentali per godere di un invecchiamento in salute e quindi proteggerci anche dal declino cognitivo e dal rischio di demenza (vedi box).

I fantastici otto

Come proteggere il cervello dalle insidie degli anni che passano

Per anni il cervello è stato considerato un organo isolato dal resto. “Oggi sappiamo che prendersi cura del proprio corpo vuol dire anche prendersi cura del cervello”, spiega il neuroscienziato Domenico Praticò. Ecco alcuni suggerimenti per favorire la salute, “ricordando che non si è mai troppo giovani né troppo anziani per farlo. Dopo tutto è sempre valido il detto ‘mens sana in corpore sano’”

1. Fare una passeggiata giornaliera di 20 minuti

Una sana abitudine dopo cena, o prima di iniziare la giornata lavorativa. Se è possibile, salire le scale a piedi evitando scale mobili e ascensore.

2. Evitare cibi confezionati ultra-processati

Meglio nutrire il corpo con una dieta sana ed equilibrata ma ricca di frutta e verdura e povera di grassi e zuccheri.

3. Dormire almeno 7 ore e in maniera regolare

Privazione del sonno o apnea notturna aumentano il rischio di declino cognitivo e demenza.

4. Mantenersi impegnati socialmente

Intraprendere attività per le quali si hanno interessi specifici. Trovare il modo di far parte della comunità in cui viviamo.

5. Leggere

Mantenere la mente sempre attiva. Iscriversi a un corso di qualsiasi natura (musica, arte, etc.). Completare un puzzle, parole crociate o impegnarsi in attività di gioco che facciano pensare in modo strategico.

6. Tenere sotto controllo la pressione arteriosa

La glicemia, il peso corporeo, e se si fuma, smettere.

7. Prendersi cura della propria salute mentale

Cercando assistenza medica se si notano sintomi di depressione, ansia.

8. Gestire lo stress

Fa male a corpo e mente: è importante cercare di gestirlo.

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