Questione di karma. Quante volte abbiamo invocato una sorta di giustizia superiore per ipotizzare piccole o grandi punizioni nei confronti di chi non si comporta bene, nella vita o sul lavoro? O magari piuttosto abbiamo mentalmente invocato una spinta positiva per chi invece ha messo in atto iniziative che hanno migliorato il benessere altrui, puntando su una ricompensa divina?
Quale che sia la chiave di lettura del fenomeno, per chi crede nel karma ci sarebbe una chiave di lettura psicologica da non sottovalutare. Ciò che di buono capita a noi, in genere, è merito del karma che (giustamente) ci accompagna. Il contrario avverrebbe per gli altri, che invece si trovano ad affrontare punizioni karmiche per i loro cattivi comportamenti. Soffriamo insomma di un bias che ci condiziona: l’autopositività che ci porta comunque a considerarci brave persone.
Nel mondo dell’interpretazione di quanto avviene, siamo portati a personalizzare il positivo (anche rischiando di sopravvalutarci) e negativizzare l’altrui gesto cattivo, figlio di impostazioni e punizioni superiori. Con differenze in base alle latitudini, alle culture e alle religioni.
A offrire questa curiosa interpretazione è una ricerca pubblicata dall’American Psychological Association su Psychology of Religion and Spirituality. Lo studio è stato coordinato da Cindel White della York University ed è stato realizzato proprio per esplorare come le motivazioni psicologiche delle persone guidino le convinzioni sul karma.
Il desiderio di un mondo giusto
Il punto di partenza dell’analisi è oggettivo: il nostro desiderio di credere in un mondo giusto, in cui le cattive azioni vengono punite, ci spinga a concentrarci sulle punizioni karmiche quando pensiamo a come il karma influisce sulle altre persone.
Ma quando dobbiamo pensare a noi stessi, il karma diventa improvvisamente buono. Grazie al bias dell’autopositività, ci concentriamo maggiormente sulle prove di un karma positivo nella nostra vita. Questo è il punto di partenza delle rilevazioni condotte dagli esperti, che hanno preso in esame oltre 2.000 partecipanti, chiedendo loro di ricordare e scrivere di eventi karmici avvenuti nella propria vita o in quella di altri.
Nel primo studio, i ricercatori hanno analizzato i dati di 478 partecipanti negli Stati Uniti, tutti credenti nel karma. I partecipanti provenivano da un mix di contesti religiosi: il 29% era cristiano, il 30% buddista, il 22% induista, il 4% di altre religioni e il 15% non religioso. Ai partecipanti è stato chiesto di scrivere di un evento karmico accaduto a loro stessi o a qualcun altro.
Buon karma per sè
Programmatori esperti hanno poi valutato ogni risposta per determinare se si trattasse di un evento karmico positivo o negativo e se fosse accaduto al partecipante o a qualcun altro. Nel complesso, la maggior parte dei partecipanti (86%) ha scelto di scrivere di qualcosa che era accaduto a sé. La maggioranza di questi (59%) ha descritto un’esperienza positiva dovuta a un buon karma. Al contrario, del 14% dei partecipanti che ha scritto di un’esperienza karmica accaduta a un’altra persona, il 92% ha scritto di qualcosa di negativo.
In un secondo esperimento, più di 1.200 partecipanti sono stati assegnati in modo casuale a scrivere di qualcosa che era accaduto a loro stessi o a qualcun altro. Questo esperimento ha incluso partecipanti negli Stati Uniti, così come un campione di buddisti a Singapore e indù in India.
Nel complesso, il 69% dei partecipanti a cui è stato assegnato il compito di scrivere di sé stessi ha scritto di un’esperienza karmica positiva, mentre solo il 18% di coloro a cui è stato assegnato il compito di scrivere di qualcun altro ha scritto di un’esperienza positiva. Un’analisi computerizzata del sentimento delle parole usate dai partecipanti ha inoltre rilevato che le storie avevano maggiori probabilità di esprimere un sentimento positivo quando le persone scrivevano di eventi karmici nella propria vita.
Sia chiaro. La percezione del karma buono per noi stessi è particolarmente forte nelle culture occidentali. Come negli Usa, c’è la tendenza a sopravvalutarsi. E addirittura, forse per cultura o per modelli, a volte molte persone ne hanno bisogno.
“Abbiamo riscontrato modelli molto simili in diversi contesti culturali, inclusi i campioni occidentali, dove sappiamo che le persone spesso pensano a sè stesse in modo esageratamente positivo, e campioni provenienti da Paesi asiatici dove le persone sono più propense all’autocritica – conferma White in una nota della stessa organizzazione – Il bias positivo nelle percezioni karmiche di sé è leggermente più debole nei campioni indiani e singaporiani rispetto a quelli statunitensi, ma in tutti i Paesi i partecipanti erano molto più propensi ad affermare che altre persone subiscono punizioni karmiche mentre loro ricevono ricompense karmiche“.
Comunque sia, abbiamo bisogno di pensare che quanto avviene per merito nostro sia comunque positivo. “Pensare al karma permette alle persone di prendersi il merito personale e di provare orgoglio per le cose positive che accadono loro, anche quando non è chiaro cosa abbiano fatto per ottenere quel risultato positivo, ma permette anche di considerare la sofferenza altrui come una giustificata punizione – segnala l’esperta – Questo soddisfa diverse motivazioni personali, e credenze soprannaturali come il karma potrebbero essere particolarmente efficaci nel soddisfare queste motivazioni quando altre spiegazioni più laiche falliscono”.