Il cuore si stanca. Per malattie delle valvole, per esiti dell’infarto, per patologie che lo rendono fragile. O più semplicemente per l’età. Il risultato è che alla fine tutto questo si può tradurre nell’insufficienza cardiaca, o scompenso. Questa condizione rappresenta una delle cronicità più complesse da affrontare e presuppone nel trattamento un’ottimale integrazione tra ospedale e territorio, per la migliore gestione del paziente.
Con una logica stringente di partenza: occorre agire prima possibile per controllare nel tempo la patologia, utilizzando le strategie terapeutiche più indicate, caso per caso, in base alle caratteristiche della patologia. Come siamo messi su questo fronte in Italia? Una fotografia viene dal congresso dell’Anmco (Associazione Nazionale Medici Cardiologi Ospedalieri) di Rimini, in cui sono stati presentati i risultati dello studio BRING-UP 3 Scompenso.
Cuore: l’età biologica ‘chiave’ per la salute cardiovascolare
“Degli oltre 5000 pazienti arruolati nella fase 1 dello studio, di cui erano stati presentati i dati basali al congresso dello scorso anno, abbiamo a disposizione il follow up a 1 anno, con una completezza che ha superato il 97% – spiega Fabrizio Oliva, presidente Anmco e Direttore Cardiologia 1 dell’ospedale Niguarda di Milano – Si è anche conclusa da poco la fase 2 di arruolamento con l’inclusione di più di 4500 nuovi pazienti da 160 centri”.
La ricerca è stata studiata per guidare l’implementazione delle più recenti linee guida nella pratica clinica nazionale e migliorare la qualità complessiva dell’assistenza ai pazienti con insufficienza cardiaca. Allo studio ha partecipato un numero molto elevato di centri cardiologici italiani così da poter affermare che i risultati dello studio rappresentano in maniera molto completa la realtà cardiologica del nostro Paese.
“Nello specifico l’attesa era quella di incrementare significativamente la percentuale di pazienti trattati con i quattro pilastri terapeutici raccomandati dalle linee guida correnti – riprende Oliva – Più del 65% dei centri ha raggiunto o superato l’obiettivo di 30 pazienti previsto dal protocollo. A questi risultati sotto il profilo dell’arruolamento e del follow up si sono associati dati scientifici di alto profilo, con percentuali molto elevate di utilizzo dei farmaci raccomandati in questa patologia, superiori a tutti i registri recentemente pubblicati in ambito internazionale“.
I margini di miglioramento, va detto, esistono. Ma la strada imboccata appare quella giusta. Anche perché i risultati mostrano come i trattamenti, pur nella complessità di una condizione clinica cronica e tendenzialmente ingravescente, grazie all’appropriatezza offrano esiti confortanti. Lo conferma Aldo Pietro Maggioni, Direttore Centro Studi Anmco, in una sorta di percorso storico.
Cuore e scompenso: un po’ di storia
“Quando nel 1995 cominciammo a raccogliere dati nei pazienti con scompenso cardiaco cronico, la mortalità era più del doppio – ricorda – Oggi è di circa il 5%. Questa riduzione è sicuramente dovuta all’utilizzo esteso dei farmaci che negli anni si sono dimostrati efficaci in questo tipo di pazienti, ma anche alla maggiore accuratezza di gestione di questi pazienti in generale. Se poi consideriamo quelli che nel tempo hanno dimostrato un miglioramento della funzione contrattile del ventricolo sinistro, generalmente definiti “improved”, la mortalità ad un anno risulta essere estremamente molto bassa: 1.9%. Questo a ulteriore dimostrazione della efficacia dei trattamenti raccomandati. Per quanto riguarda invece la necessità di re-ospedalizzazione, i risultati evidenziano come ci siano ancora ampi spazi di miglioramento dal momento che 1 paziente con scompenso cardiaco cronico su 5 necessita di un nuovo ricovero nel corso dell’anno di follow-up”.
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