Ortoressia, cosa c’è dietro l’ossessione per il mangiare sano

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Zuccheri, grassi, olio di palma, proteine animali, coloranti artificiali. Alla scoperta dell’ortoressia, disturbo che porta a escludere alcuni alimenti dalla dieta, pensando di mangiar sano

È un disturbo alimentare subdolo, che nasce da un desiderio di salute. Ortoressia (dal greco ὀρθός, corretto e ὄρεξις, appetito) è un termine coniato nel 1997 per descrivere l’ossessione per il mangiar sano. La cattiva notizia è che “chiunque, in ogni fase della vita, può esserne colpito. Anche se dal punto di vista meramente statistico la popolazione femminile è più affetta, con un picco di incidenza nell’adolescenza”. Parola di Edoardo Mocini, medico dietologo e ricercatore di Università Sapienza e Policlinico Umberto I di Roma, che proprio di recente con il gruppo di ricerca interdisciplinare di cui fa parte, ha pubblicato su ‘Eating and Weight Disorders’ (prima firma Lorenzo Donini) una consensus internazionale che racchiude la letteratura disponibile e fa il punto su patologia e criteri diagnostici. Ne parliamo nella prima puntata della nuova rubrica dedicata ai disturbi del comportamento alimentare, con la collaborazione non condizionante di Fondazione Cotarella.

L’ortoressia presenta un’associazione con alcuni fattori di rischio come gli sport agonistici, la danza classica, ma anche lo studio di materie legate all’alimentazione. E anche la pandemia ha influito su questa ‘ossessione’. “Dal punto di vista scientifico è impossibile dire se l’ortoressia sia aumentata in pandemia”, puntualizza il dietologo. Dal punto di visto aneddotico, però, “la sensazione è che ci sia stato un effetto”.

Negli anni di Covid-19 “abbiamo assistito a una crescita esponenziale di tutti i disturbi dell’alimentazione. La limitazione della vita sociale, l’innalzamento dei livelli di stress, la tendenza al rimuginìo hanno sicuramente favorito l’insorgere o l’aggravarsi di situazioni di questo tipo”. Il fatto è che, non essendoci stato per molto tempo un consenso unanime sui criteri diagnostici, è difficile avere stime esatte di prevalenza per l’ortoressia. Ad esempio, “abbiamo studi sulla popolazione italiana che parlano di cifre intorno al 5%, e percentuali a doppia cifra emerse da ricerche su popolazioni a rischio, come ad esempio gli studenti di dietetica. C’è infatti una correlazione tra occuparsi di cibo e frequenza dell’ortoressia”, sottolinea Mocini.

Ma come si declina questo disturbo? “Nell’ortoressia nervosa c’è l’esclusione di alimenti percepiti (erroneamente) come potenzialmente dannosi per la propria salute. Il tutto seguendo, in genere, criteri di ‘sanismo’ molto in voga nella nostra società. Pensiamo alla grande moda del ‘senza’ che caratterizza il comparto agro-alimentare: senza zuccheri, senza grassi, senza olio di palma, senza carboidrati. Il tutto mentre la stragrande maggioranza dei fattori di rischio riguarda lo scarso apporto di verdure, fibre, legumi. L’ortoressia – continua Mocini – tende ad appoggiarsi alle false credenze che pullulano nel mondo dell’alimentazione”.

L’impatto sulla salute è estremamente variabile. Questo “rende particolarmente insidiosa la diagnosi in pazienti che presentano sintomi sfumati o poco ‘visibili’, anche quando in realtà la sofferenza psichica e sociale è molto presente”, sottolinea il ricercatore. La buona notizia è che l’ortoressia si può trattare in modo efficace. “L’approccio migliore è quello indicato dalle linee guida sui disturbi dell’alimentazione: un’equipe multidisciplinare che assicuri un trattamento integrato, psicologico e dietologico. Purtroppo i servizi del sistema sanitario nazionale sono in grande affanno ed estremamente sottodimensionati rispetto alle necessità dei pazienti. Questo riguarda in particolare proprio i disturbi più sfumati, in cui la malnutrizione è meno grave, come spesso nel caso dell’ortoressia. Alcune di queste persone nelle fasi della malattia attraversano periodi di alimentazioni perfette, il problema è quando questa rigidità diventa ossessiva e si esprime con una quotidianità di sofferenza”.

In generale, sollecita lo specialista, dobbiamo tenere d’occhio qualunque campanello d’allarme che ci dia l’idea di rinunciare alla salute: quindi una perdita di peso significativa e non intenzionale o terapeutica, ma anche un aumento della sofferenza psichica o la rinuncia a eventi sociali in nome di rigide abitudini alimentari.

“Questo tipo di disturbo è in forte aumento nel genere maschile. È importante aiutare i pazienti a capire che non sono ‘strani’ se sono affetti da ortoressia. Allo stesso tempo – raccomanda Mocini – i servizi di cura devono essere pronti ad accogliere pazienti di ogni tipo, indifferentemente dal genere o dall’età. Mentre a volte i questionari proposti sono tutti al femminile”.

Altro problema: le cure possono risultare molto costose per i pazienti. “I percorsi sono di durata molto variabile, spesso possono durare mesi o anni, con professionisti altamente qualificati. A questo si aggiunge l’andamento cronico-recidivante di alcuni disturbi, che rendono necessari continui ‘richiami’ nel trattamento. Questi percorsi rischiano di non essere economicamente sostenibili per molti pazienti. Inoltre i centri privati convenzionati, non trattandosi di servizi particolarmente remunerativi e anzi molto dispendiosi, sono spesso poco inclini a offrire prestazioni di questo tipo. Si sta assistendo anche al ridimensionamento degli spazi dedicati in diversi centri, quando invece – conclude Mocini – avremmo bisogno di decuplicare l’offerta”.

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