L’antimicrobico resistenza (AMR) è una emergenza planetaria e una minaccia crescente per la salute globale. L’Europa è particolarmente colpita dai suoi effetti e l’Italia si conferma, nonostante qualche progresso, uno dei Paesi maggiormente interessati dal problema.
Non è un caso, quindi, che la riunione dei ministri della Salute del G7, in corso ad Ancona, si apra con una sessione dedicata alla resistenza antimicrobica e all’importanza di promuovere un uso prudente e responsabile degli antibiotici, sia in campo umano che veterinario, nel quadro di un approccio One Health, e di sostenere la ricerca e lo sviluppo di nuovi antibiotici e l’accesso a quelli esistenti.
Secondo i rapporti dell’ECDC (European Centre for Disease Prevention and Control, il Centro Europeo per la Prevenzione e il Controllo delle malattie, l’equivalente del CDC americano) nell’Unione Europea l’antimicrobico resistenza è responsabile di circa 33mila decessi all’anno, almeno un terzo dei quali in Italia, che detiene a tutt’oggi un triste primato per diffusione di germi resistenti, numero di giornate di ospedalizzazione collegate a infezioni da patogeni resistenti e decessi a seguito di ICA, le infezioni correlate alla assistenza.
L’antimicrobico resistenza ha ricadute particolarmente importanti su alcune categorie di pazienti, come quelli immunocompromessi o soggetti a degenze lunghe, quindi più esposti al rischio di contrarre infezioni da germi resistenti. Le complicanze infettive in questo genere di pazienti sono responsabili dell’allungamento dei tempi di degenza media dei ricoveri, quindi di maggiori costi dell’assistenza, e rappresentano una delle principali cause di morte, la seconda in ambito oncologico. I pazienti onco-ematologici presentano, infatti, numerosi fattori di rischio per lo sviluppo di un’infezione, tra i quali l’immunodepressione, l’antibiotico-profilassi per la neutropenia febbrile e la presenza di dispositivi impiantabili (PORT, PICC, drenaggi, stent, cateteri venosi centrali, ecc.).
Menarini Group ha supportato di recente, insieme ad un gruppo di stakeholder, una analisi della letteratura sull’AMR nei pazienti affetti da tumore. Cancer Patients Europe (CPE), organizzazione di tutela delle persone affette da tumore che riunisce 49 tra Associazioni e Federazioni di Associazioni di 23 Paesi, ha partecipato alla revisione. Ne abbiamo parlato con Antonella Cardone, Ceo dell’organizzazione.
Quali sono le ragioni che vi hanno spinto a partecipare a questa revisione della letteratura sull’antimicrobico resistenza nei pazienti affetti da tumore?
CPE è una organizzazione internazionale di advocacy che rappresenta le persone con tumore e promuove la ricerca e le policy. Lavoriamo con la Commissione Europea e con gli Stati membri su alcuni temi specifici, come l’Health Technology Assessment, l’European Health Data Space e, ultimamente, anche l’Antimicrobico resistenza, tema particolarmente caldo. In questo ambito, prima di procedere nel nostro lavoro di advocacy, volevamo verificare quali dati siano disponibili in letteratura. È noto ed intuitivo che l’AMR colpisce le persone immunodepresse, quindi anche chi è affetto da tumore, ma volevamo disporre di dati ed evidenze sui quali basare il nostro lavoro, capire dove sono e quali sono le carenze, i gap, anche nella ricerca, sui quali intervenire con le nostre proposte per i decisori, ai diversi livelli.
Cosa avete trovato?
Stiamo ancora lavorando ad una pubblicazione scientifica che renderà conto della metanalisi che abbiamo condotto, quindi posso fare solo delle anticipazioni. Ma posso già dire che trovo sconcertanti alcuni degli elementi emersi. Il rischio di morire a causa di una infezione da germi resistenti nelle persone con tumore è tre volte superiore rispetto al resto della popolazione, e per un terzo di essi il decesso arriva entro un mese dall’infezione. Il 50% dei decessi nelle persone con tumore è causato direttamente o indirettamente da una infezione. Trovo gravissimo che questi dati non siano conosciuti. C’è una carenza incredibile di documentazione, registri, e quando si classifica la causa di morte in ospedale ciò che risulta è la causa prima del ricovero, cioè il tumore. Tutto questo è molto grave, ed ha ricadute evidenti.
Un problema, questo, sottolineato anche per l’Italia da un recente policy brief elaborato nell’ambito del progetto Valore e sostenibilità degli antibiotici per contrastare l’Antimicrobico resistenza, promosso da Fortune Italia e acquisito dall’Intergruppo Parlamentare One Health. A tutt’oggi non è previsto, in Italia, un DRG specifico per le infezioni da germi resistenti contratte in ospedale, e ciò comporta una serie di conseguenze, in primo luogo legate alla valorizzazione del ricovero, ma anche alla corretta registrazione degli eventuali decessi attribuiti, anche se dovuti ad una ICA, solo alla causa prima del ricovero. L’assegnazione di un DRG specifico per le infezioni da germi resistenti agli antibiotici garantirebbe, invece, tariffe per il rimborso delle degenze ospedaliere più vicine alla realtà, e assicurerebbe anche una quantità rilevante e particolarmente utile di informazioni e di dati sull’impatto effettivo dell’AMR.
Quali altri elementi di rilievo sono emersi dalla vostra revisione?
Un altro aspetto importante è che poiché le infezioni da germi resistenti colpiscono soprattutto pazienti con sistema immunitario depresso, rendono di fatto più problematico o impossibile l’utilizzo di terapie salvavita, come la chemioterapia per esempio. Un sondaggio effettuato presso un campione di oncologi britannici ha rivelato che il 46% di essi è preoccupato che nel giro di pochi anni, a causa dei numerosi casi di infezioni da germi resistenti, la chemioterapia non sia più utilizzabile. E questa preoccupazione riguarda anche altri trattamenti, come l’immunoterapia, o le cellule CAR-T. In altre parole, temono che l’AMR rappresenti una minaccia per il progresso delle terapie oncologiche e di dover fare i conti, a breve, con la obsolescenza dei trattamenti antitumorali di punta. Mi sembra un problema molto serio.
E poi c’è tutto il tema dei costi sociali dell’antimicrobico resistenza…
Esatto. In primo luogo, tutto ciò che riguarda la qualità della vita delle persone con tumore, e per noi questo è un aspetto di particolare rilievo. Ci sono pazienti che vivono nel terrore di contrarre una infezione da germi resistenti, e che per questa ragione evitano qualunque contatto e si isolano. L’allungamento del decorso clinico conseguente ad una infezione da germi resistenti agli antibiotici provoca, inoltre, un periodo più lungo di allontanamento dal lavoro, e questo è un costo che ricade anche sulle famiglie dei malati. Analizzare e valutare i costi indiretti per noi è particolarmente importante. Per non parlare del costo per i sistemi sanitari, risorse che potrebbero essere destinate ad altri pazienti o alla sostenibilità complessiva del sistema.
A proposito di HTA, che è tra i temi di interesse per CPE, i costi indiretti e le esternalità sono parte strutturale delle valutazioni.
Sì, certo, anche se dobbiamo rilevare che si tratta di una parte assai trascurata delle valutazioni di HTA. È raro che le agenzie regolatorie, per esempio, tengano nel giusto conto costi indiretti ed esternalità positive derivate da un trattamento antibiotico innovativo.
L’OMS considera lo sviluppo attuale di nuovi trattamenti antibatterici quantitativamente inadeguato per il contrasto dell’antimicrobico resistenza. Se non si inverte rapidamente la rotta, nei prossimi anni i clinici avranno sempre meno armi da utilizzare contro i superbatteri, mentre già oggi si trovano di fronte a ceppi cosiddetti PDR (Pan Drug Resistant), cioè resistenti a tutti gli antibiotici. C’è chi paventa il rischio di scenari da epoca pre-antibiotica.
È importante disporre di nuovi antibiotici, quindi è importante investire in ricerca. Ma poi bisogna incentivare anche il mercato, perché purtroppo sappiamo che uno dei problemi più grossi è strettamente correlato alla inadeguatezza dei prezzi di questi farmaci e alla loro scarsa remuneratività rispetto agli investimenti effettuati dalle aziende farmaceutiche. Per noi tutto questo è inconcepibile.
Un fattore, questo, che ha contribuito, insieme ad altri, a determinare un problema di sostenibilità industriale dell’antibiotico che, al momento, non ha trovato soluzione. Per provare ad invertire la rotta, alcuni Paesi del G7 stanno sperimentando meccanismi di incentivazione, tanto per la ricerca che per sostenere il mercato. Da una parte, quindi, si cerca di promuovere la ricerca di nuovi antibiotici, possibilmente che utilizzino nuovi meccanismi di azione, dall’altra si sostengono gli antibiotici di ultima istanza (Reserve) già esistenti sul mercato per le infezioni da germi resistenti. L’Italia, unica tra i Paesi del G7, non ha ancora messo in campo interventi riconducibili a strategie per il recupero della attrattività di questa area terapeutica, né di promozione di ricerca e sviluppo di nuovi antibiotici, né di sostegno per quelli già esistenti. In questo momento sono in corso sperimentazioni interessanti, per esempio, nel Regno Unito e in Svezia, solo per citare alcuni esempi. Qual è la vostra percezione rispetto ad esse?
Queste sperimentazioni, per quanto ci riguarda, vanno benissimo. Un aspetto molto importante per noi è la certezza dell’implementazione al livello europeo, avere la possibilità di dare indicazioni agli Stati membri sulle best practice ma anche e soprattutto sul livello minimo al quale tutti i Paesi si devono allineare. Purtroppo, spesso verifichiamo disconnessioni notevoli tra il livello europeo e gli Stati membri, e soprattutto discrepanze incredibili tra Stati nei quali ci sono best practice e Stati nei quali si è particolarmente indietro, come in Italia in questo caso specifico.
Ha citato gli ospedali per la mancata registrazione delle infezioni da germi resistenti, anche in relazione alla causa del decesso. Gli infettivologi sostengono, tuttavia, che in Italia gli ospedali, pur con evidenti margini di miglioramento e, purtroppo, una volta di più, con un gradiente di efficienza tra Nord e Sud, sono attrezzati per la prevenzione e il controllo delle infezioni da germi resistenti, il territorio no.
Per la percezione che abbiamo dal nostro osservatorio possiamo dire che anche per gli ospedali ci sono ancora solo alcuni rari casi di buone pratiche. Se non c’è rilevazione del dato non c’è neanche incentivo ad affrontare il problema e a migliorare. E non lo dico solo con riferimento alla causa del decesso, ma anche rispetto alla causa dell’infezione, alla sua evoluzione e durata, alla individuazione della terapia più corretta. Troppo spesso si decide empiricamente quale antibiotico somministrare, anche se la diagnostica ti consente oggi di disporre delle informazioni necessarie per mirare meglio la terapia anche in tempi rapidi. E questo fa la differenza, perché ti consente di non perdere tempo prezioso e di non sprecare gli antibiotici, somministrando magari antibiotici innovativi quando l’infezione è ulteriormente progredita, il paziente si è debilitato ancora di più e, spesso, è troppo tardi.
E anche quei farmaci diventano armi spuntate…
Esatto. E poi c’è tutta la questione della prevenzione legata alla igiene, delle mani prima di tutto, ma anche dei presidi e dei dispositivi. Penso, per esempio, agli accessi venosi, ci sono evidenze riguardanti il maggiore o minore rischio di infezioni in relazione alla qualità dei materiali utilizzati. Ci sono presidi e dispositivi che hanno un minor impatto sul rischio di infezioni, magari costano un po’ di più. Con tutto il lavoro sviluppato nel corso degli ultimi anni per aumentare l’informazione sulla prevenzione del rischio di infezioni, ci sembra inconcepibile che si possa far prevalere ancora l’attenzione per i costi a danno della sicurezza dei pazienti. Tutte queste questioni, comunque, ruotano ancora una volta intorno alla mancata rilevazione dei dati, che non consente di dare evidenza del rapporto costo-benefici delle diverse scelte che si fanno nella pratica. Di recente ho avuto modo di conoscere l’esperienza di un ospedale della Catalogna, dove si rilevano sistematicamente le infezioni attraverso un registro specifico. Da quando hanno introdotto questa procedura i casi di infezione sono notevolmente diminuiti, con tutto ciò che ne deriva per i pazienti e per il sistema sanitario.
CPE è fortemente orientata all’advocacy e alla individuazione di policy da proporre ai decisori. Alla luce dei risultati della analisi che avete condotto, quali saranno le vostre priorità? Come pensate di muovervi?
Pensiamo innanzitutto di lavorare per promuovere una maggiore consapevolezza sull’AMR, tanto nei cittadini che nei medici e nel personale sanitario in genere. Poi contiamo di esercitare pressione sulla politica perché si individuino regole, linee guida, norme o forse anche più semplicemente indicatori da inserire a livello di piani nazionali, per costringere i clinici e il personale sanitario a registrare i dati e a tenere sotto controllo le infezioni, riducendone l’incidenza.
Nella agenda del G7 Salute, il tema antimicrobico resistenzasarà trattato nel quadro dell’approccio One Health, con attenzione all’uso prudente e responsabile degli antibiotici anche in medicina veterinaria.
È l’approccio corretto, ed è anche l’unico possibile. Non si può guardare all’AMR come se si tratti di qualcosa di isolato, che riguarda solo l’uomo. L’interconnessione stretta tra la salute degli esseri umani, degli animali, delle piante e dell’ambiente è ormai un dato incontrovertibile, così come la necessità di adottare un approccio integrato nelle politiche di contrasto dell’AMR. Durante l’emergenza pandemica sembrava che tutto questo fosse definitivamente chiaro, che finalmente avessimo capito, compresi i legami tra salute del pianeta ed economia. Ce ne siamo dimenticati in fretta.