Covid-19, intervenire su governance sanitaria

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Le vicende legate all’emergenza Covid-19 sicuramente stanno avendo ed avranno una profonda incidenza non solo nella nostra vita ma nelle politiche politiche sociali, industriali, di sviluppo, e in generale nel complesso delle politiche pubbliche.

 

Faremo i conti con una ridefinizione delle priorità sia individuali che collettive ed il tempo ci dirà se i cambiamenti saranno, alla fine, in meglio.

 

E’ un fatto che il servizio sanitario nazionale sia tornato, finalmente, ad essere argomento di discussione nel dibattito politico istituzionale del nostro paese dopo essere stato per molti anni considerato “un costo” da tagliare o nel migliore dei casi da contenere e valutato con parametri legati alla “sostenibilità” economica senza tener conto dell’enorme valore intangibile generato.

 

Oggi verifichiamo quanto è importante in termini di coesione sociale, sviluppo economico, sicurezza.

 

Detto questo proprio perché è così importante bisogna tener conto di alcuni aspetti che ancor di più in questa fase emergono come critici.

 

E’ un sistema disfunzionale dal punto di vista della catena di comando. La riforma del titolo V della Costituzione circa venti anni fa ha trasferito le competenze relative alla tutela della salute alle regioni che hanno creato, invece di snellire e deburocratizzare i processi, venti “piccoli” ministeri della salute. Lo spirito, positivo, della riforma era di avvicinare il governo delle scelte ai cittadini. Il risultato, negativo, è che se non c’è una catena di garanzie e contrappesi che permetta che i diritti dei cittadini siano garantiti a prescindere da dove vivono una parte importante del paese resta ostaggio di amministrazioni inefficienti senza che ci si possa, in sostanza, far nulla.

 

E’ un sistema diseguale. Il servizio sanitario che ci sta ‘salvando’ in questo momento è profondamente differenziato in termini di accessibilità ed esigibilità dei diritti, diviso non solo in termini di standard di servizio tra nord e sud ma anche all’interno delle stesse regioni tra città ed ‘aree interne’ (aree spesso montane con una presenza di servizi di vario genere bassa e tra questi quelli socio sanitari) in cui vivono oltre dieci milioni di persone. Basta verificare indicatori, a mero titolo esemplificativo, come i tassi di mobilità dei cittadini tra le varie regioni in cerca di cure, le liste di attesa sia per la diagnostica sia per gli interventi ospedalieri, l’adesione agli screening per la prevenzione in ambito oncologico.

 

È un sistema sostanzialmente basato sugli ospedali. Perché le strutture ospedaliere, che pure sono essenziali, sono state sempre usate come una “bandiera” fisicamente mostrabile mentre sul sistema di cure territoriali non si è investito nulla. Abbiamo, tranne probabilmente gli esempi di Veneto, Emilia Romagna e Trentino, modelli frammentati, con distretti territoriali più o meno (spesso meno) funzionanti per mancanza di personale, dipartimenti della prevenzione ridotti ai minimi termini, assistenza domiciliare inesistente, medici di famiglia e farmacisti di comunità lasciati come unico “fronte” di prossimità al cittadino ma con un ruolo spesso residuale.

 

È un sistema che ragiona a compartimenti stagni. Bisogna avere un governo che riguardi non solo la gestione “all’interno” del servizio sanitario, quindi tra stato e regioni, ma anche a tutto ciò che è giuridicamente all’esterno ma che non può continuare ad essere slegato come la gestione dei servizi sociali o delle enormi risorse della parte “assistenza” che fa capo all’Inps. La mancanza di collegamenti e di un “governo” tra questi ambiti crea caos e sprechi che un paese serio non può permettersi.

 

A fronte di queste criticità vi sono state nella scorsa legge di stabilità alcune scelte importanti che hanno segnato una inversione di tendenza dal punto di vista del finanziamento che si è vista anche nel Patto per la Salute tra stato e regioni siglato a fine 2019. A queste risorse si aggiungono quelle ingenti che stanno arrivando collegate alla gestione Covid.

 

Scelte importanti e risorse che da sole non bastano. Bisogna intervenire sulla governance del sistema, che renda trasparenti poteri, responsabilità, garanzie ed “accountability” ma bisogna far si che ci sia una vera centralità della persona che si interfaccia con il servizio sanitario e dei suoi bisogni perché è quello che fa la differenza.

 

Una centralità che non sia enunciata ma esercitata, attraverso ad esempio il rafforzamento gli strumenti di partecipazione dei cittadini nelle varie fasi sia dei processi di decisione delle politiche della salute che di valutazione dei risultati.

 

Se il servizio sanitario è sopravvissuto ad anni di blocco del turn over e di definanziamento lo si deve alle battaglie fatte dalla cittadinanza attiva ed alla “resilienza” degli operatori sanitari che hanno dovuto imparare a proprie spese la traduzione di “do more with less”. Detto questo ora si apre una nuova fase in cui il servizio sanitario, non “restaurato” o “rattoppato” ma rilanciato ha tutte le possibilità non solo di consolidare il proprio ruolo di “infrastruttura sociale” ma di essere elemento di vantaggio competitivo del nostro paese a livello internazionale.

 

 

* Antonio Gaudioso è segretario di Cittadinanzattiva

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