Criticità e opportunità nel futuro della ricerca

il futuro della ricerca
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Quale sarà il futuro della ricerca scientifica? Cosa le riserverà o dovrebbe riservarle il Piano nazionale di ripresa e resilienza che entro aprile il governo italiano dovrà presentare in Europa? Sono alcuni degli interrogativi a cui sono stati chiamati a rispondere gli ospiti che il 10 febbraio hanno partecipato alla tavola rotonda ‘Il futuro della ricerca, aziende , istituzioni e mondo scientifico a confronto’ che Fortune Italia Health ha trasmesso in streaming sui principali canali social.

Digital e governance, ma sostenibili

Primo a rispondere alle domande del direttore di Fortune Italia Fabio Insenga è stato il direttore generale della Direzione generale della ricerca e dell’innovazione in sanità del ministero della Salute, Giovanni Leonardi, partendo dall’evidenziare il modo in cui la pandemia ha inciso sull’innovazione. “È evidente a tutti – ha detto – il ruolo poderoso che essa ha giocato e tutti i cambiamenti che ha portato in pochi mesi. A partire dalle declinazioni del digitale, come la telemedicina”. Una grande assente per anni, oggi è parte integrante della quotidianità. A partire dagli istituti ospedalieri che dialogano a distanza con i pazienti in carico, che per diversi motivi legati alla pandemia non possono recarsi quanto dovrebbero presso le strutture sanitarie. Ma, avverte Leonardi, esistono numerose problematiche non secondarie da risolvere. Come quella della gestione dei dati sensibili “che ha contribuito al non decollo dell’app Immuni”, per non parlare della governance della Sanità. Punto su cui il direttore Dg della Salute ha invitato la politica a interrogarsi sugli aspetti positivi e negativi che può avere una maggiore o minore centralizzazione, nonché sugli effetti di una diversa relazione tra ospedale e territorio. Aggiungendo che qualunque direzione prenderà l’innovazione in Sanità essa “dovrà trovare il modo di essere sostenibile”.

Non tornare all’era ante Covid

Una sostenibilità che potrebbe passare proprio dalla specifica richiesta dei cittadini che si realizzi una vera “sanità diffusa sul territorio e che raggiunga pazienti e caregiver a domicilio”, ha dichiarato la vicesegretario generale di Cittadinanzattiva, Anna Lisa Mandorino. Cittadini che chiedono compatti “che non si torni indietro all’era ante Covid e che ciò significhi anche diminuire l’impatto della burocrazia sull’accesso alle cure”. Un obiettivo non utopistico, ma realmente raggiungibile. Come dimostra la ricetta dematerializzata: una chimera fino al 2019 ma che nel 2020, di necessità virtù potremmo dire, è divenuta cosa fatta. Oltre a ciò, e prima di ciò, “il tema più urgente su cui lavorare è la necessità che i 24 milioni di malati cronici italiani possano tornare a cure e screening regolari. Così da evitare che i 30mila decessi in più registrati dall’Istat nei primi nove mesi del 2020 rispetto alla rispetto allo stesso periodo del 2019, causati dalle mancate cure, non continuino a presentarsi anche quest’anno”.

Recuperare il tempo diagnostico perduto

Del resto le conseguenze della pandemia, del mancato o ridotto accesso alle strutture sanitarie per paura di contagio o perché parte degli operatori sanitari furono riconvertiti alla gestione dell’emergenza Covid, oggi mostra già le prime nefaste conseguenze. “Nei primi nove mesi del 2020 sono state effettuate due milioni di esami di screening in meno rispetto al 2019”, ha ricordato Paolo Marchetti, Professore ordinario di oncologia medica Sapienza. Non è necessario essere una Cassandra per capire che “questo comporterà una diminuzione delle diagnosi precoci di tumore alla mammella o al colon-retto e di quelle lesioni clinicamente considerate anticamera del tumore”. A ciò si aggiunge l’allungamento dei tempi necessari per poter accedere alle visite di screening e il conseguente ritardo diagnostico che va ad aggravare la ben nota situazione delle liste d’attesa relative ad esempio per le mammografie.

Vaccini e brevetti: collaborare invece che forzare

In questo scenario si inserisce la necessità di migliorare l’attacco di prima linea alla diffusione del Covid-19. L’arma più efficace rimane il vaccino. Che però scarseggia. Complici le normali difficoltà incontrate dai produttori all’atto di realizzare miliardi di dosi in tempi stretti e anche il diverso libello di efficacia dei vaccini sinora approvati dalle autorità regolatorie. C’è chi grida alla necessità di liberare i brevetti invocando le norme internazionali. Una via percorribile? Nessuno lo potrebbe impedire. Ma, come ha ricordato Paola Minghetti, ordinario di Tecnologia e legislazione farmaceutiche dell’Università degli studi Milano, “se non si rispettassero i brevetti nessuno farebbe ricerca applicata alla stregua delle aziende. Pensare di eliminarli o forzarli potrebbe portare solo svantaggi per tutti”. Allora quale possibile soluzione? “La strada da percorrere – ha aggiunto – credo sia quella degli accordi commerciali e delle licenze. Occorrerebbe una vera grande strategia tra lo Stato e le aziende. Il primo potrebbe trovare il modo di favorire i player della farmaceutica italiana, prima in Europa nella produzione, a convertire parte degli stabilimenti produttivi all’allestimento dei vaccini anti-Covid più efficaci”.

La strategia no-Covid per la ripresa sanitaria ed economica

Insomma, anche in questo caso è evidente che l’unione fa la forza. Soprattutto quando il nemico è invisibile, aggressivo e strisciante come il Covid. “Come si è visto, nel mondo a fare la differenza nell’evoluzione della pandemia è l’atteggiamento concreto con cui i governi affrontano questa criticità”, ha ricordato Walter Ricciardi professore ordinario di Igiene e sanità pubblica Università Cattolica e presidente della Mission Board for Cancer Horizon Europe. “L’unica strategia vincente per tornare a una normalità sanitaria ed economica”, in attesa di raggiungere la famigerata immunità di comunità, meglio nota come ‘immunità di gregge’, “è la strategia no-Covid, che prevede lockdown rigido e totale”, ben diversa da quella di “convivenza con il Covid adottata dall’Italia”, indica tranchant Ricciardi. Non senza ricordare che “l’ipotesi no-Covid”, che richiede anche un sistema serratissimo di test&trace, “fino ad oggi non è stata presa in considerazione da Palazzo Chigi. Altri Paesi che l’hanno adottata, ora sono vivono una normalità sanitaria e una ripresa economica. Come la Cina, dove il Pil segna +20%”.

Idee e proposte per il Recovery Plan

Tante criticità, quelle evidenziate, che potrebbero tramutarsi in opportunità. Soprattutto alla luce dell’enorme mole di finanziamenti europei previsti dal Recovery Plan. Che, ricordiamo, è a fondo perduto solo per 85 miliardi. Mentre la restante parte è un debito a tasso agevolato che deve servire a investire sul futuro del Paese, affinché produca una ricchezza sufficiente non solo per ripagarlo, ma anche per una vera crescita sistemica. Insomma si tratta di contrarre con l’Ue quel “debito buono” caro a Mario Draghi, che tutti danno per certo allo scranno più alto di Palazzo Chigi.
E allora come poter impiegare queste risorse sul versante della ricerca scientifica? “Potenziare la collaborazione pubblico-privata”, affinché la ricerca diventi valore tangibile e volano di crescita è la ricetta di Leonardi, che però avverte: “I fondi sono necessari, ma prima di questi è fondamentale abbattere la barriera ideologica che ancora in Italia tiene distanti ricerca e industria”.
“Puntare a superare le disuguaglianze territoriali in tema di accesso alla Salute” è la richiesta raccolta da Cittadinanzattiva, che punta sullo sviluppo dell’innovazione tecnologica della Sanità per ridurre questo gap, ricordando come “moltissimo resti da fare in termini di interoperabilità dei dati tra strutture e soggetti diversi”. Dal punto di vista clinico “occorre introdurre velocemente dei correttivi ai ritardi diagnostici causati dalla pandemia. I nuovi finanziamenti devono contribuire a creare percorso definiti per integrare la medicina ospedaliera con quella del territorio anche in ambito oncologico di prevenzione e cura”, ha esemplificato Marchetti.

E a livello internazionale? Risponde Ricciardi: “La Brexit offre all’Italia la possibilità di occupare lo spazio lasciato libero dal Regno Unito nell’ambito della ricerca europea. Ma per cogliere questa opportunità bisogna partecipare alla Ricerca come Paese in modo attivo ai numerosi e vari deal, come quello green, che oggi ci vedono ancora solo spettatori”. Sarà la volta buona, vista la volontà del presidente del Consiglio incaricato, Mario Draghi, di istituire il ministero della Transizione Ecologica?

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