Varianti Covid e vaccini, il punto di Massimo Ciccozzi

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Varianti Covid e vaccini disponibili (o in arrivo). A fare chiarezza su una questione che preoccupa esperti e autorità sanitarie è Massimo Ciccozzi, responsabile dell’unità di Statistica medica ed Epidemiologia della facoltà di Medicina e Chirurgia del Campus Bio-Medico di Roma.

Professor Ciccozzi, uno dei prossimi vaccini che potrebbero essere autorizzati per contrastare l’infezione da Covid-19 è quello di Johnson&Johnson. Che differenza c’è dal punto di vista tecnologico rispetto ai vaccini già autorizzati in Ue e in Italia?

Analogamente al vaccino di Astrazeneca, quello di J&J utilizza un Dna a doppio filamento che codifica per la proteina Spike, mentre quelli di Pfizer/Biontech e di Moderna si basano su un filamento di mRna. Un’altra differenza riguarda il vettore, cioè il taxi che permette a queste grosse molecole di Dna o mRna di entrare nelle cellule. Nel caso di J&J è l’adenovirus del comune raffreddore debitamente modificato, attenuato si dice in gergo, per renderlo innocuo. Gli altri due vaccini invece vengono veicolati tramite dei liposomi, in buona sostanza delle micro palline di grasso. Dal punto di vista molecolare i vaccini a Dna sono meno fragili rispetto a quelli a Rna proprio in ragione della maggiore resistenza alla degradazione della molecola a doppio filamento rispetto a quella che caratterizza un filamento singolo.

E in termini di conservazione, cosa che influisce anche sulla gestione logistica delle dosi?

Il candidato vaccino di J&J si conserva a 2-8 gradi centigradi per non più di 2-3 mesi. Il vaccino di Pfizer invece deve essere conservato a meno 80 gradi, mentre quello di Moderna a meno 20. Con conseguenti accorgimenti da adottare per il mantenimento delle rispettive catene del freddo.

I dati degli studi clinici di fase III relativi al candidato vaccino di J&J mostrano un’efficacia del 66% nella prevenzione dell’infezione da Covid-19 da moderata e dell’85% nella prevenzione della malattia grave, proteggendo completamente dai ricoveri e dalla morte legati. Nel primo caso significa che circa un terzo dei vaccinati potrebbero non sviluppare la risposta immunitaria. Qualora il vaccino fosse approvato in Ue e in Italia, questo 34 per cento di persone che non sviluppano l’immunità potrebbe rappresentare un vulnus rilevante per la campagna vaccinale? Non sarebbe opportuno prevedere, in questo caso, un test antigenico a distanza di qualche settimana dalla somministrazione per verificare la presenza di anticorpi ed eventualmente ri-vaccinare chi non li ha sviluppati?

Dopo 3-4 settimane deve essere eseguito un test sierologico per vedere se c’è stata risposta al vaccino e si sono prodotti gli anticorpi. Per coloro che non sviluppano la risposta immunitaria consiglierei di cambiare strategia vaccinale somministrando un altro vaccino.

Attualmente però, mi corregga se sbaglio, non è prevista l’esecuzione di un sierologico a valle della seconda dose di vaccino anti-Covid…

Purtroppo è vero. Non vengono eseguiti, come del resto accade nel caso della vaccinazione antinfluenzale. Però è anche vero che, trattandosi di pandemia, a mio avviso andrebbe fatta una titolazione anticorpale dei vaccinati. Almeno a campione. Qui al Campus stiamo allestendo uno studio sul titolo anticorpale a quattro, sei, nove e dodici settimane di distanza dall’ultima dose. Parteciperanno tutti coloro che nel nostro ospedale sono stati vaccinati con il vaccino Pfizer.

Passiamo al siero di Astrazeneca/Oxford: dapprima la scarsità di dati sull’efficacia negli over-55 evidenziata dagli enti regolatori Ue. Poi quella della ridotta efficacia sulla “variante sudafricana”, per la verità emersi da uno studio su sole duemila persone. Una efficacia relativamente ridotta come accade anche per i vaccini Pfizer/Biontech e Moderna. Ci saranno effetti sul piano vaccinale italiano?

Vorrei precisare che “ridotta efficacia” non significa che l’efficacia non c’è. Viceversa, l’efficacia c’è e si manifesta per esempio nel far sì che la persona infettata non sviluppi sintomatologie gravi, che non sviluppi polmoniti e che quindi non rischi di morire. Per quanto riguarda le varianti, innanzitutto bisogna andarle a cercare attivamente per capire se ci sono, quali sono e in che percentuale. Per contrastarle, i vaccini a Rna sono molto più duttili perché possono essere riprogrammati, che significa fare un nuovo vaccino nell’arco di 6-7 settimane. A titolo di esempio, se si diffondessero molto le varianti, per chi ha già ricevuto il vaccino Pfizer sarebbe sufficiente fare un richiamo con la versione “aggiornata” di questo vaccino. Modificare vaccini a Dna come è anche quello russo Sputnik richiede invece un tempo più lungo.

Certo, pensare a ri-vaccinare chi è già stato vaccinato mentre gran parte della popolazione deve ancora ricevere la prima dose potrebbe aprire scenari politico-organizzativi non da poco…

La complessità di quanto succederebbe non riguarderebbe la scienza, ma la politica e l’economia. E quando mescoliamo la scienza con la politica e l’economia facciamo solo disastri. La scienza deve viaggiare per conto suo e dare informazioni che possano guidare le scelte politiche.

Viste le varianti del virus e l’apparente scarsa efficacia dei vaccini sviluppati contro il ceppo iniziale, è verosimile l’ipotesi che qualora le varianti si diffondano i vaccini disponibili non siano sufficientemente efficaci per arginare la diffusione del contagio e permettere di tenere sotto controllo l’epidemia?

Ad oggi, vediamo che i vaccini attualmente in uso sono efficaci contro la variante inglese e quella brasiliana. Le tre varianti del virus hanno due mutazioni importanti: la 501Y e la E484K. Quest’ultima è quella che determina un minor riconoscimento anticorpale e quindi una minore efficacia. Come dicevo prima, la copertura contro il virus è inferiore, ma c’è. E soprattutto consente la riduzione dei sintomi e quindi il rischio di morte.

Un’ultima battuta guardando al futuro: quanto è probabile, a suo avviso, che dovremo immaginare una costante rincorsa alla vaccinazione con il siero che sarà via via stato “aggiornato” contro le nuove varianti che potrebbero svilupparsi nel tempo?

È possibile, così come accade con l’influenza stagionale. Non sappiamo però con quale frequenza, poiché non è ancora nota la durata della protezione conferita dalla vaccinazione anti-Covid. Per ora questa durata è di sei mesi, ma potrebbe essere anche di nove o dodici. Probabilmente, per convergenza evolutiva questo virus si adatterà a noi. Le caratteristiche di alta contagiosità e bassa letalità del Covid lo rendono ideale in termini di adattamento al proprio ospite, l’uomo, che deve essere contagiato ma non ucciso. Per questo è probabile che esso diventerà endemico e che dovremo ri-vaccinarci a intervallo di un anno o di due.

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