Covid, la sostenibile incertezza di un vaccino tricolore

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Produrlo in casa sarebbe una possibile soluzione alla carenza di dosi di vaccino anti-Covid che tristemente affligge il nostro Paese. E che impedisce di porre un serio freno alla drammatica situazione sanitaria, così come alla disastrosa congiuntura economica che interessa il tessuto imprenditoriale nazionale. Da giorni i media locali e nazionali rincorrono le voci di un possibile coinvolgimento attivo del comparto farmaceutico italiano per la produzione “in-house” del tanto agognato siero.

Ma la domanda ricorrente – ‘cosa ci vuole a produrselo da sé?’ – rivolta a clinici e rappresentanti di big pharma da alcuni colleghi giornalisti a caccia di facili provocazioni e consensi da parte del proprio pubblico, non sempre trova un’adeguata risposta. E non sempre perché essa non esista. Il fatto è che poter essere autonomi nella produzione di questo vaccino è un argomento tanto facile da cavalcare mediaticamente e politicamente, quanto di sostenibile incertezza da parte di chi conosce da vicino i processi e le tecnologie necessarie per poterci riuscire.

Come ha più volte ricordato il presidente di Farmindustria Massimo Scaccabarozzi, i vaccini sono farmaci biotecnologici che richiedono impianti produttivi molto specifici e non mutuabili da altre produzioni farmaceutiche. Che, tradotto, significa che non è possibile pensare che un’azienda farmaceutica un giorno smetta di produrre una qualsiasi compressa e si metta a sfornare fiale di vaccini anti-Covid.

Ciascuna azienda ha una propria capacità produttiva, che normalmente viene destinata e allestita con macchinari e addetti specializzati per la produzione di determinati prodotti farmaceutici sulla base di specifiche programmazioni. Anche nel caso in cui il titolare dell’autorizzazione all’immissione in commercio di un dato prodotto decida di delegarne la produzione a un contoterzista farmaceutico, quest’ultimo riserverà tutta o parte della propria capacità produttiva a quel cliente in virtù di accordi spesso siglati con larghissimo anticipo. Come a dire che non è possibile cambiare di punto in bianco la propria produzione.

È invece ipotizzabile, ma richiede tempo e know-how, immaginare di ampliare la produzione mettendo in piedi nuove linee produttive dedicate al vaccino. Occorre espandere gli stabilimenti, acquistare macchinari specifici (nel caso del vaccino dei particolari bioreattori) e, non ultimo, superare l’ispezione dell’Agenzia italiana del farmaco (Aifa) senza la cui autorizzazione la produzione non può iniziare.

Un processo che, proprio nel migliore dei casi, potrebbe richiedere circa sei mesi.
Non stupisce, quindi, che stiano via via aumentando le dichiarazioni spontanee di varie aziende farmaceutiche operanti in Italia in risposta al battage mediatico che si sta alimentando intorno a questo tema.

È fresca di oggi la conferma dell’accordo preliminare firmato da Novartis con Pfizer-BioNTech per fornire capacità produttiva per il vaccino anti Covid-19. Ma è altrettanto confermato il fatto che lo stabilimento di Torre Annunziata in provincia di Napoli dell’azienda svizzera Novartis non sarà coinvolto nella produzione di questo vaccino, che invece vedrà la luce a Stein in Svizzera, dove Novartis infialerà il principio attivo grezzo di BioNTech. Di ieri, invece, le dichiarazioni di Angelini con sede ad Ancona e Pfizer che ha uno stabilimento ad Ascoli Piceno rilasciate al quotidiano ‘Cronache Maceratesi’, con cui escludono la possibilità di riconvertire i propri impianti per la produzione del vaccino.

Quindi, ben venga l’incontro programmato per domani tra il ministro dello Sviluppo Economico Giancarlo Giorgetti e il presidente Scaccabarozzi per cercare di capire se, come e dove la farmaceutica italiana potrebbe produrre il vaccino. Del resto l’Italia è ricca di ottimi cluster farmaceutici come quelli che insistono sull’area lombardo-milanese-monzese e nel Lazio tra frusinate e Pomezia. Ma è bene non alimentare, soprattutto agli occhi dei cittadini, false speranze di una veloce indipendenza vaccinale in campo Covid. Sul vaccino tricolore grava ancora una sostenibile incertezza.

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