Big data e salute, come gestire le informazioni

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Dati. Tracce dei nostri comportamenti, delle nostre opinioni e dei nostri sentimenti, di cui spesso perdiamo il controllo trasformandosi in valore per qualcun altro. Nel nostro quotidiano siamo come Pollicino, il protagonista della celebre fiaba di Charles Perrault, lasciamo briciole al nostro passaggio (“briciole digitali”, il nuovo pane di cui ci nutriamo ogni giorno). Lasciamo tracce delle nostre domande nei motori di ricerca che interroghiamo; dei nostri desideri, dei nostri sentimenti e delle nostre opinioni, nei social network a cui partecipiamo; dei nostri acquisti nelle numerose tessere e carte di credito; delle traiettorie dei nostri movimenti nei nostri smartphone e nei sistemi di navigazione delle nostre auto; dei luoghi che visitiamo attraverso i selfie che scattiamo. Ma le tracce che lasciamo dietro di noi serviranno per profilare meglio i nostri comportamenti di consumo o potranno servire a noi per ritrovare la via della nostra vita e conoscere meglio il senso dei nostri comportamenti? Lasciamo sassolini o briciole di pane che saranno mangiate dagli uccelli?

Il dato rappresenta una risorsa dal valore inestimabile anche, e soprattutto, per la collettività. I dati possono diventare bene comune: un tesoro di conoscenza collettiva che è lì, a portata di mano, ma che spesso non viene utilizzato. I dati possono aiutarci a gestire alcune sfide del nostro tempo, tra cui la Salute.

Abbiamo una mole preziosa di dati legati alla salute: ma a chi spetta gestirli e come utilizzarli? Se ne è parlato al primo webinar di Big Data in Health 2021, a cura di Big Data in Health Society con il coordinamento di Igor Comunicazione.

Al centro del webinar il tema spinoso delle modalità di condivisione dei dati bio-clinici e la loro destinazione d’uso, in carico e a disposizione non solo ad enti con fine pubblico, ad esempio gli ospedali e le aziende sanitarie locali, ma anche di organizzazioni private e di molte aziende che si occupano di salute.

La progressione della quantità di dati a disposizione dovrebbe essere realmente compresa e utilizzata dalle istituzioni, ha avvertito Walter Quattrociocchi, professore associato al Cdcs della Sapienza Università di Roma. “Stiamo vivendo in un sistema informativo nuovo, un condensato di fenomeni e attori che hanno completamente modificato la struttura attraverso la quale ci informiamo. In realtà, l’esperienza pandemica ha mostrato come non ci sia molta capacità di comunicazione tra i due mondi. In estrema sintesi: il ricercatore scientifico fa la ricerca, pubblica l’articolo su una rivista autorevole, ne semplifica i risultati in modo da comunicare al decisore politico il quale, alla fine, si trova costretto a rispondere che non sa bene cosa farci perché non ha capito fino in fondo la ricerca. Questo è il punto”.

Sempre nel corso del webinar, l’epidemiologo computazionale Alessandro Vespignani, in collegamento dalla Northeastern University di Boston, ha ricordato che “l’epidemiologia computazionale, come fosse un’agenzia d’intelligence, ha cercato di dare una serie di informazioni per trovare risposta alla pandemia. Quello che è mancato è stata un’infrastruttura simile a quella che abbiamo per i grandi centri di previsione meteorologica nazionali. Purtroppo, non c’è stato coordinamento e molte delle informazioni provenienti da questo lavoro d’intelligence sono state lasciate a gruppi di ricerca sparsi, a parte qualche esempio negli Usa e in Europa”.

“Quel che mi aspetto per il futuro è che vi sia un grande sforzo comune per rendere operativo tutto ciò che abbiamo imparato in questi lunghi mesi di pandemia ed essere più pronti per le prossime volte. Il che significa avere centri strutturati di risposta epidemiologica attraverso i dati che non siano lasciati sulle spalle dei gruppi accademici o all’insegna dell’emergenza. Su un altro versante, bisogna invece migliorare e proseguire sulla strada degli standard – ha continuato Vespignani – e del coordinamento sovranazionale, dove l’Oms ha da poco annunciato una piattaforma per un centro di Data Analytics. Altro aspetto ancora è capire quali passi in avanti sono stati fatti rispetto a dati inaccessibili per anni, come quelli trattati dalle grandi compagnie tecnologiche e che invece e per fortuna, durante la pandemia sono stati messi a disposizione in nome del “data for good”. Ecco, dobbiamo continuare questo percorso”.

Nessuno mette in discussione la libertà imprenditoriale di produrre informazione riservata. O quella di raccogliere ed elaborare per proprio conto dati clinici e sanitari ai fini di ricerche (pubbliche o private).

Del resto, è pratica comune che non solo le imprese ma anche le reti di professionisti intorno alla salute – ingegneri clinici, medici di medicina generale, medici specialisti, informatici, assicuratori, etc. – arricchiscano e gestiscano in autonomia i propri database, facendo uso di molteplici piattaforme informatiche e software che purtroppo spesso non permettono una interoperabilità tra dati e tra dati e dispositivi medici. Insomma, quasi una Babele. E’ però vero che, come ha sottolineato l’assessore alla sanità pugliese Pierluigi Lopalco intervenuto al webinar, “senza la sanità affidata a 21 Regioni, in Italia, la pandemia non si sarebbe potuta affrontare”. Ora però bisogna far parlare fra di loro i dati. Perchè con i dati “il totale è maggiore della somma delle parti”, per cui i benefici di unire più fonti sono probabilmente molto maggiori di quelli ottenuti presidiando le singole raccolte dati.

Veronica Jagher, director healthcare industry solutions Microsoft, durante il suo intervento ha ribadito che effettivamente “i dati durante la pandemia non hanno funzionato bene, anche a causa della mancata adozione di standard di formato e di piattaforma finalizzati ad una interoperabilità in fase di raccolta dati, che consentisse decisioni rapide e “data driven”, ovvero “guidate dai dati”. Di fatto, siamo stati colti tutti impreparati e sarebbe ingiusto cercare imputati e colpevoli. Inoltre, c’è stata una difficile collaborazione tra governi e organizzazioni sanitarie a seguito della mancata definizione di quali dati fossero prioritari da raccogliere. La mancata omogeneità dei dati sanitari raccolti dalle singole organizzazioni ospedaliere e pubbliche ha poi reso quasi impossibile l’analisi”.

Il problema è quindi come evitare che la vecchia cultura competitiva, basata spesso su interessi locali e visioni ristrette del diritto imprenditoriale, rallenti questo processo di condivisione. Il rischio è che si arrivi ad invocare politiche transnazionali forti e precise, “calate dall’alto”, per imporre tale condivisione.

In questo momento la condivisione è e deve rimanere un processo win-win, che porti ad espandere il mercato e ad arricchire le possibilità imprenditoriali: la scommessa sta nel trovare nuove forme di collaborazione che salvaguardino gli investimenti pregressi evitando politiche predatorie.

In materia di dati e di dati bio-clinici, è necessario mettere in campo per i prossimi anni un forte impegno culturale e formativo. Ma ancora di più, per ridurre l’impatto negativo di raccolte ed elaborazioni dati eterogenee e incomplete, va realizzato l’effettivo coordinamento da parte delle istituzioni, nazionali e transnazionali.

“Si tratta, evidentemente, di un passaggio affatto semplice che inevitabilmente dovrà avere carattere legislativo e concordato” conclude Antonio Scala, presidente di Big Data in Health Society.

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