Lo stato di emergenza e il rischio ragionato

Posto in essere dal governo Conte II il 30 gennaio 2020 alla luce del codice della Protezione civile, lo stato di emergenza è stato adottato per snellire le procedure di approvazione di leggi, decreti e strumenti che consentissero di affrontare quanto prima – e appunto in modo adeguato, perché più rapido ed efficace – i problemi che l’erompere della pandemia di Covid ha comportato nel nostro Paese.

Già prorogata, la scadenza dello stato di emergenza, prevista al prossimo 31 luglio, oggi non può che essere spostata ulteriormente in avanti (potrà arrivare, peraltro, al massimo fino al 31 gennaio 2022, in quanto non si può superare per legge il limite dei due anni).

La ragione di ciò è presto detta. Il rinnovo trova fondamento proprio in quel ‘rischio ragionato’ con cui il presidente Draghi ha guidato fino a oggi le sue decisioni in tema, aprendo via via all’allentamento di quelle misure di prevenzione anti-Covid, adottate nell’ultimo anno e mezzo, in base all’emergenza.

L’obiettivo di un’ulteriore proroga non è quello – come detto da taluni, inopinatamente – di ‘militarizzare il nostro Paese’, ma, al contrario, quello di non indebolire invece l’azione di contrasto al virus, facendo venir meno tutta l’impalcatura giuridica che l’ha consentita, cioè strutture, mezzi e poteri non ordinari che lo stato di emergenza permette, a partire dalla struttura commissariale diretta dal generale Figliuolo e dal Comitato tecnico scientifico, e che offre elementi appunto tecnico-scientifici al governo per le sue scelte in tema. La proroga dello stato di emergenza quindi va intesa come strumento a tutela delle libertà riconquistate, non contro di esse.

Nel marcare con forza la necessità di non farci trovare sguarniti laddove emerga anche da noi la necessità di fare rapidamente fronte alla cosiddetta variante Delta – che sta già aggredendo pesantemente molte realtà a noi vicine – si evidenzia peraltro un ulteriore punto durante l’anno e mezzo che ha caratterizzato il nostro ordinamento sotto il cielo dello ‘stato di emergenza’. Nei fatti, vi sono state due fasi: la prima durante il governo Conte, e la seconda durante il governo Draghi.

La prima fase ha visto il Parlamento, almeno all’inizio, molto silente e poi via via coinvolto seppur dentro quelle criticità – da più parti evidenziate – dell’uso del dpcm come strumento ordinario di governo, sebbene come noto si tratti di una fonte del diritto che non passa dal Parlamento. La seconda fase invece, al contrario, ha visto il Governo Draghi impegnato a gestire l’emergenza tramite atti normativi, in primis i decreti legge, che presuppongono innanzitutto l’azione e la partecipazione, in forma di dialogo intenso, tra il governo e, appunto, il Parlamento.

A guardar bene, dunque, la proroga dello stato di emergenza che abbiamo di fronte assume tanto i contorni di un necessario scudo – medico, strutturale e infrastrutturale – da mantenere di fronte al rischio di una recrudescenza della pandemia in ragione delle sue varianti, quanto di uno strumento gestito in modo davvero più rispettoso e coerente con la nostra forma di governo.

Questo, in quanto, grazie all’esecutivo guidato da Mario Draghi, ormai poggia saldamente su scelte governative che non escludono ma includono il Parlamento nelle iniziative necessarie da adottare per ridurre i danni arrecati da questa pandemia.

Prorogare quindi lo stato di emergenza oggi, prima che essere una scelta necessitata da un contesto epidemiologico che la impone con la brutale forza dei numeri dei ricoverati nelle terapie intensive, nasce dalla presa d’atto, con intelligente buon senso, di un governare che trova nell’antico adagio ‘prevenire è meglio che curare’ il fondamento della sua l’azione.

Si tratta di un approccio prudente e gradualista, di chi si immagina che l’elastica flessibilità della nozione dello stato di emergenza possa consentire al suo interno un esercizio, appunto, ragionato, senza sentire sul collo la pressione di una pandemia che ti costringe a coartare senza alternative le vite di tutti noi.

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