Per cambiare la medicina l’AI deve migliorare. Ecco come

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Dopo anni in cui nessuno sapeva con certezza in che misura le promesse dell’AI in ambito sanitario si sarebbero realmente concretizzate, gli ultimi mesi stanno dando ragione a chi ritiene deep learning e machine learning alleati preziosi nell’imprimere un’accelerazione significativa al progresso medico.

Nonostante le novità annunciate da startup e aziende farmaceutiche e un rinnovato entusiasmo per il settore da parte di investitori e istituzioni, occorre però mantenere i piedi per terra: l’intelligenza artificiale, così com’è ideata, sviluppata e utilizzata, rischia ancora di essere poco d’aiuto alla ricerca e allo sviluppo di nuove soluzioni terapeutiche. O meglio: al loro stato attuale, si corre il rischio di sfruttarne il potenziale solamente allo 0,1%. Per fortuna, per migliorare la situazione la ricetta è relativamente semplice.

Servono dati pensati per l’AI. A oggi, ad esempio, i dati forniti agli algoritmi per il loro addestramento e il successivo utilizzo sono rastrellati ovunque sia possibile farlo e a volte senza particolare riguardo per la loro qualità. I sistemi basati su learning e deep learning del resto funzionano imparando a trovare correlazioni tra vastissime quantità di informazioni, motivo per cui la priorità dei ricercatori spesso è semplicemente reperirle.

Questo pone problemi di vario genere: al di là del fatto che cartelle cliniche e altre tipologie di big data fornite agli algoritmi di machine learning a volte non sono classificate a dovere, spesso non sono neppure progettate per essere sfruttate appieno dagli algoritmi di AI. Serve dunque pensare a metodi efficaci e condivisi per generare dati utili in quantità industriale e caratterizzati da criteri di vera oggettività, che mantengano vicino allo zero il rischio di dare vita a pericolosi bias, una volta che vengono immagazzinati e digeriti dagli algoritmi.

Il lavoro dell’AI oggi è spesso considerato come un elemento da applicare a posteriori a dati raccolti per altri scopi, mentre deve essere immaginato fin dall’inizio come parte del flusso operativo dei ricercatori. L’AI andrebbe anzi impiegata addirittura prima che i dati vengano raccolti, per assistere gli studiosi nella progettazione degli esperimenti.

Algoritmi migliori e studiati allo scopo. Oltre a dati di maggiore qualità serve anche un approccio diverso al training degli algoritmi, e in particolare concentrare gli sforzi su pre-training intelligenti, che si basino essi stessi su machine learning o che siano codificati all’interno degli algoritmi. È un compito pericoloso perché errori nell’insegnamento di concetti base può minare dall’inizio tutti gli sforzi successivi nel training di una AI, ma la contropartita è ottenere AI più precise e capaci di lavorare con meno input.

Fino a oggi in effetti la maggior parte delle tecnologie impiegate in ambito medico e basate su sistemi di AI sfruttano algoritmi derivati da prodotti destinati ad altri scopi; basti pensare all’imaging assistito – un derivato dei più generici algoritmi di computer vision.

Sviluppare algoritmi efficaci significa pensarli per l’ambito in cui verranno impiegati, e addestrarli con dati coerenti, tutti appartenenti allo stesso dominio; l’obbiettivo è ottenere intelligenze artificiali esperte in settori più complessi e difficili da padroneggiare.

Esperti fianco a fianco. L’AI infine non va semplicemente portata al cospetto delle aziende, ma integrata nei loro processi. Esperti formati in quest’ambito devono lavorare accanto ai biologi nella raccolta dei dati, nella progettazione degli esperimenti e nell’ideazione di procedure che favoriscano l’integrazione degli algoritmi nei flussi di lavoro fin dai primi passi. Saranno importanti anche figure “bilingue”, addestrate in entrambi i campi, che facciano da mediatrici tra le istanze, i linguaggi e le priorità di entrambe le tipologie di team.

Un approccio multidisciplinare insomma è quello che maggiormente farà emergere le realtà di successo rispetto a quelle che invece rimarranno indietro nell’adozione dell’AI in ambito medico. Le startup sono ovviamente avvantaggiate in questo – perché più agili nel riplasmare modi operandi, protocolli e team di lavoro sulla base delle necessità emergent – ma la necessità è talmente impellente che tutte le aziende che desiderano continuare ad avere un impatto in questo settore dovranno adeguarsi al cambio di paradigma.

Perché di questo di tratta: un cambio di mentalità da attuare al più presto all’interno di aziende e istituti di ricerca, che metta esperti di AI e biologia fianco a fianco per produrre una nuova generazione di algoritmi più intelligenti e utili in un maggior numero di ambiti particolari. L’obbiettivo, mai come oggi, è a portata: intelligenze artificiali che facciano fare un salto di qualità all’intero settore medico e farmaceutico.

*Victor Savevski, Chief Innovation Officer Humanitas Healthcare Group,
Director of A.I Center Humanitas Research Hospital.

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