Irving no vax è un precedente ingombrante

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Oltre 20 milioni di dollari lasciati sul tavolo per una scelta no vax. Si scrive ai Brooklyn Nets, una delle franchigie più in vista della Nba, un capitolo che potrebbe essere rivisto nel copione anche di altri campionati: un atleta di primissimo piano non si vuole vaccinare e resta senza metà stipendio. Certo, Kyrie Irving, stella dei Nets con contratti milionari ottenuti nella lega da quasi un decennio, avrà di che mangiare ma il tema è forte: una scelta personale (e legittima) che comporta una stagione intera lontano dalla squadra e con paga ridotta. Secondo le regole imposte dallo stato di New York (negli Stati Uniti sono diverse, città per città) l’atleta non immunizzato non può accedere alle facilities – le strutture di allenamento – e non può giocare le partite al palazzetto, in questo caso a Brooklyn. Per andare sul parquet serve il certificato di vaccinazione.
Nets come l’Nba, linea dura
I Nets quindi hanno scelto la linea dura, pagando Irving (metà ingaggio, perché Irving per lo stato di New York non può giocare le gare in casa) coerente con il diktat della Nba sulla quarantena: per non rischiare il sabotamento della stagione (i danni per la pandemia sono andati oltre i quattro miliardi di dollari) la lega ha deciso che per gli avversori del vaccino ci saranno test quotidiani, prima di allenamenti, viaggio e partite, niente pranzi o cene nella stessa stanza di un collega vaccinato o membro dello staff – invece obbligati a vaccinarsi, così come gli arbitri – e il rispetto di almeno due metri di distanza da qualsiasi altra persona. Sempre ai noVax è assegnato un armadietto il più lontano possibile da quelli degli altri compagni di squadra, dovranno viaggiare in posti lontani sugli aerei e non potranno lasciare il loro appartamento o il loro hotel, né partecipare ad avvenimenti pubblici per il rischio di essere contagiati. Insomma, Irving resta fuori finché non si sarà convinto alla vaccinazione, così ha spiegato la dirigenza di Brooklyn.
E gli altri cosa faranno?
Potrebbe finire come un altro atleta Nba, Andrew Wiggins (Golden State Warriors), che di fronte alla concreta possibilità di non giocare metà delle partite in programma (anche lui avrebbe potuto giocare solo le partite lontano da San Francisco, la città degli Warriors) e perdere tipo 15 milioni di dollari ha scelto di sottoporsi al vaccino. Il caso Irving, oltre a scuotere la Nba che ha schierato il meglio del repertorio, ovvero Michael Jordan, a sostenere la vaccinazione per gli atleti, spedisce la palla nel campo degli altri tornei major, americani ed europei. Nella Serie A che si appiglia alla privacy, senza dati sui calciatori finora immunizzati, oppure in Premier League, dove ci sono solo sette squadre con circa il 50% di vaccinati secondo la Bbc, non c’è l’obbligo di vaccinazione per gli atleti. Nel torneo italiano poi il vecchio protocollo stilato da federcalcio e Cts aveva creato più di un grattacapo. Le regole per gli atleti sono sicuramente meno restrittive che nella NBA ma cosa può succedere di fronte a un caso clamoroso come quello di Irving? Per ora si naviga a vista.
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