Covid, Deltacron e il ‘prosciutto che non c’è’

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Il “Prosciutto di Maino” è una vecchia storia nata a Sesto Fiorentino, cittadina alle porte di Firenze. La leggenda – si dice però sia una storia vera – narra delle botte che volarono tra Maino e sua sorella. Affamati dalla guerra, i due cominciarono a fantasticare sull’ipotesi di possedere un prosciutto. Fantasticato sul suo utilizzo, se le diedero di santa ragione a causa del mancato accordo su come far fruttare l’osso. Un osso inesistente di un prosciutto che c’era stato solo nella loro fantasia.

Che c’entra questa storia con la pandemia da Covid-19? Nei giorni scorsi la rivista Nature ha messo definitivamente la parola fine sulla vicenda della variante Deltacron. Annunciata la nascita da un piccolo laboratorio di Cipro, la notizia dei 52 nuovi casi di questa variante misteriosa è cominciata a circolare su molti organi di informazione. Deltacron, una variante frutto della fusione tra la variante Delta e la Omicron. Nel giro di un paio di giorni sono incominciati anche gli approfondimenti con interviste agli esperti per saperne di più. Sarà più contagiosa? Anche questa “buca” i vaccini? E via con tutta una serie di considerazioni. La variante Deltacron però non è mai esistita, come il prosciutto di Maino.

Quanto accaduto con questa vicenda, che mi ha ricordato in tutto e per tutto la grottesca storia di Sesto Fiorentino, ci deve far riflettere sull’importanza della comunicazione della pandemia. Tutti abbiamo delle colpe in questa ondata di infodemia. In primo luogo occorre una seria riflessione sul significato di fare informazione quando si ha a che fare con la salute delle persone. L’eccesso di notizie, spesso decontestualizzate e poco utili al cittadino, ha portato i nostri lettori a perdere fiducia. L’informazione breaking-news ha lasciato poco spazio all’approfondimento. In questo modo è difficile interpretare la realtà. Abbiamo trasformato in notizie degne di spazio anche gli studi o i comunicati stampa più improbabili.

Sarebbe però poco corretto scaricare tutte le colpe su noi professionisti dell’informazione. Dall’altra parte della barricata c’è il mondo della ricerca. Nel perverso meccanismo della pubblicazione scientifica a tutti i costi, abbiamo assistito ad un numero crescente di articoli ritirati perché completamente falsati. Non solo, complice la volontà di apparire come interlocutori credibili, alcuni esperti intervistati si sono fatti prendere talmente la mano dall’esprimere spesso opinioni non supportate dalle evidenze scientifiche del momento. Questo ha generato ulteriore smarrimento tra chi, desideroso di informarsi, si imbatteva nei più improbabili talk-show dove l’esperto di turno veniva smentito da quello invitato nel blocco successivo.

Nessuno è infallibile ma se c’è una lezione che dobbiamo portare a casa da questa pandemia è tornare ad occuparci di informazione sulla salute in maniera essenziale. Privilegiare la qualità alla quantità. L‘approfondimento alla notizia scarna. Uscire dalla logica del “devo arrivare per primo”. Per farlo però occorrono seri investimenti. La qualità dell’informazione sulla salute dipende da molti fattori, in primis quello della competenza. Investire in informazione di qualità non sia più uno slogan da convegni sul “futuro del giornalismo”. Vivere in salute è anche questione di corretta informazione.

*Daniele Banfi, giornalista Fondazione Umberto Veronesi.

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