L’impatto della Shoah su medicina e ricerca

Shoah
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Nella Giornata della memoria vogliamo ricordare che la Shoah, la ‘calamità’ (questo il significato del termine) che travolse gli ebrei nei 12 anni che vanno dal 1933 al 1945, tolse la vita a circa 7.500 ebrei italiani. Ma ebbe anche un pesante impatto sulla medicina e sulla ricerca scientifica del nostro Paese. E questo a causa dell’alto numero di medici privati del camice, o di docenti allontanati dal proprio ateneo.

Raffaele Lattes, Ettore Ravenna, Salomone Franco sono solo alcuni degli studiosi costretti a lasciare i loro studi, o il nostro Paese, per sfuggire alle persecuzioni razziali. Mentre un altro medico, Giovanni Borromeo, nascose decine di ebrei scampati alla retata nazista, in un reparto dell’ospedale Fatebenefratelli di Roma. Per loro inventò addirittura una malattia infettiva estremamente pericolosa, che chiamò ‘Morbo di K‘ (K stava a indicare l’ufficiale tedesco Herbert Kappler o il generale tedesco Albert Kesselring). Le SS, temendo il contagio, non fecero mai irruzione nel reparto di isolamento.

Di queste storie, di questi nomi, forse in Italia si parla ancora poco, considerata l’aggressione inaccettabile subita a Campiglia Marittima da un ragazzo di dodici anni, circondato insultato, colpito a calci e sputi da due quasi coetanee. Un episodio duramente condannato, fra gli altri,  dal presidente della Fnomceo, la Federazione nazionale degli Ordini dei Medici, Filippo Anelli: “Come cittadini, come medici che giurano di curare tutti senza discriminazione alcuna, e di tutelare in modo particolare i minori, le vittime di abusi, violenza, maltrattamenti, ingiustizie, le persone in condizioni di vulnerabilità psico-fisica, sociale o civile, non possiamo tacere, non possiamo rimanere indifferenti. Meditiamo e non tacciamo, perché anche il silenzio, l’inazione, la sottovalutazione sono passi verso un baratro capace di inghiottire i diritti di tutti noi”, sottolinea Anelli.

Un baratro che ha inghiottito numerosissime ricerche e studi clinici che sarebbero stati svolti in Italia se agli anatomopatologi ebrei non fosse stato impedito di esercitare. È l’interessante analisi di tre professori italiani, che su ‘Pathologica, in occasione della Giornata della Memoria, raccontano le storie di chi, in quegli anni, è stato costretto a rinunciare alla professione medica, accompagnate da un editoriale di Riccardo Di Segni, rabbino Capo della comunità ebraica di Roma.

“Le leggi razziali ebbero un forte impatto sullo sviluppo della ricerca scientifica italiana – afferma il rabbino Di Segni, radiologo – Le discriminazioni colpirono fortemente gli ordini professionali, che dovettero espellere gli ebrei, e le Università, che si videro costrette a licenziare i professori. La loro comunità era molto presente nel mondo medico, con un grande numero di eccellenze sia nella pratica clinica che nella ricerca. Un esempio sono Salvatore Luria e Rita Levi Montalcini, premi Nobel di origine ebraica”.

Parla di un processo che, “come un piano inclinato progressivamente più ripido, ha portato all’abisso”, Mattia Barbareschi, direttore Anatomia e Istologia Patologica dell’Ospedale Santa Chiara di Trento ed editore della rivista ‘Pathologica’. “Negli anni delle leggi razziali i medici ebrei si sono inizialmente trovati costretti a poter curare solo pazienti di origine ebraica, poi hanno dovuto abbandonare la professione. Diversi sono stati costretti a scappare all’estero e altri ancora hanno perso la vita. Oltre che per il dramma umano, l’esclusione dei medici italiani di origine ebraica dalla vita professionale è stata una perdita importante per la comunità medico-scientifica. Un esempio fu Raffaele Lattes: chirurgo torinese, dovette prima smettere di curare chi non era ebreo, poi lasciare il posto in Università. Si trovò quindi costretto a emigrare negli Stati Uniti, dove iniziò a praticare come anatomopatologo. In breve tempo le sue grandi capacità furono riconosciute e divenne capo del Dipartimento di anatomia patologica della Columbia University. Oggi è ricordato come uno degli specialisti più influenti nella storia della disciplina”.

Ci sono poi i medici che, pur sfuggendo alla Shoah, “non poterono più praticare e vennero perciò privati della loro identità professionale –  continua Carlo Patriarca, direttore dell’Anatomia Patologica all’Ospedale Sant’Anna di Como – Per esempio Ettore Ravenna, che dovette adattarsi a insegnare scienze in una piccola scuola ebraica, o Salomone Franco, che si trasferì nel futuro stato di Israele, dove si faceva spedire i testi scientifici dall’Italia. Erano medici che avrebbe continuato a contribuire allo sviluppo dell’anatomia patologica italiana, se gli fosse stato consentito”.

Patriarca ricorda anche il nome di Giuseppe Jona, anatomopatologo e presidente della comunità ebraica di Venezia. “Fu un grande professionista e un filantropo che curava gratuitamente chi non poteva permetterselo. Una notte bruciò le liste degli aderenti alla sinagoga perché la Gestapo non potesse rintracciarli, fece testamento e si tolse la vita. Con questo suo gesto ridusse le conseguenze dei successivi rastrellamenti nel ghetto. Il giorno dopo la sua morte, i gondolieri che aveva spesso assistito sfilarono sui canali in una processione silenziosa, per ricordarlo. Oggi un padiglione dell’ospedale civile della città lagunare è dedicato a lui”.

Storie di vita, di scienza e di medicina, da ricordare nel Giorno della memoria, consapevoli che oggi “la sfida – come scrive Cristiana Ciarli in ‘Oltre la memoria. La Shoah spiegata ai giovani, oggi’ – è una sola, per il mondo della scuola e degli adulti in generale: dare un reale contributo alla memoria storica, mostrare la realtà in tutta la sua complessità, senza sconti, senza edulcorazioni, senza banalizzazioni e soprattutto senza alterazioni infondate, formare coscienze civili che sappiano riconoscere il male e sappiano combatterlo in modo da restituire dignità e giustizia ai milioni di uomini, donne e bambini morti da innocenti nei campi nazisti”.

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