La salute è sempre più digitale, e agli italiani piace così

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Gli italiani non hanno più paura di big pharma. Sarebbero perfino disponibili a condividere i propri dati sanitari con le aziende farmaceutiche o quelle dei dispositivi medici.
Secondo la ricerca condotta dall’osservatorio Life Sciences del Politecnico di Milano in collaborazione con Doxapharma, il 25% dei pazienti potrebbe dire sì alla condivisione dei propri dati biologici sia con le strutture sanitarie presso cui sono curati sia con l’industria della salute.

A patto che questi dati, siano utilizzati per soli scopi di diagnostica, ricerca clinica e medicina personalizzata. Insomma senza fini di lucro. Dati che possono essere raccolti anche con l’utilizzo di tecnologie innovative come quelle dei sensori oggi disponibili per essere indossati, impiantati e perfino ingeriti. Pillole che possono viaggiare nell’organismo, filmare ciò che incontrano e misurare parametri vitali di varia natura. Non parliamo di fantascienza, ma di qualcosa che è già presente e che rende più che curioso un italiano su due, che direbbe sì a un impianto o a ingerirli. Purché sia il medico a consigliarlo.

È questo il sapore che sta assumendo il mondo delle scienze della vita nel nostro Paese. Un settore che vede il digitale come protagonista abilitante e il paziente e il medico come protagonisti di una trasformazione che sembra definitivamente avviata. Sebbene talvolta con qualche freno a mano tirato.

E’ il caso delle terapie digitali, quell’insieme di soluzioni che annoverano applicazioni molto evolute in grado di far interagire paziente e medico nell’ottica di favorire il miglioramento delle condizioni di salute del malato. Da anni diffuse e utilizzate negli Usa e anche in Germania, dove in entrambi i casi sono anche rimborsate dalla sanità pubblica, sono assai utilizzate nel caso di malattie comportamentali e mentali ma non solo. Da noi, invece, si vive ancora in un limbo caratterizzato da due barriere. Da un lato il quadro regolatorio non definito per quanto riguarda i dati scientifici necessari all’ente regolatore per la valutazione della terapia digitale. Dall’altro la conseguente assenza di rimborsabilità.

Anche se parallelamente, riporta l’osservatorio dell’ateneo milanese, andrebbe fatta informazione sulla classe medica che non ha ancora ben chiara la differenza tra le decine di migliaia di app che misurano passi, attività fisica e via dicendo e le digital therapy vere e proprie.

Però il segnale che i tempi stanno davvero cambiando arriva dal mondo degli studi clinici. Dove la tradizionale rigidità è stata più che scalfita dalla pandemia. Quando, gioco forza, ci si è dovuti “adeguare” a lavorare anche in remoto.

I clinical trial decentralizzati, che utilizzano soluzioni digitali per raccogliere e analizzare i dati, sono ormai realtà. L’electronic Case Report Form è usato da quasi sei specialisti su 10 e anche i dispositivi indossabili sono largamente diffusi per la raccolta dei parametri dei pazienti. Del resto il 61% degli specialisti riconosce la validità di questo modo di lavorare per raccogliere un numero maggiore di dati così come la possibilità di differenziare di più i pazienti coinvolti nei trial.

Anche se, avvertono gli esperti, bisogna ancora lavorare per favorire una maggiore diffusione del digitale nella ricerca clinica. In primis migliorando le competenze digitali di medici e pazienti, ma anche ottimizzando i sistemi in grado di tutelare la data privacy.

E le aziende non stanno a guardare. Soprattutto se si tratta di start-up innovative, che nel 2021 hanno raccolto 36,4 miliardi a livello globale. Il 38% di queste imprese sta sviluppando prodotti e servizi proprio per la ricerca clinica, con particolare successo in quanto ad attrazione di fondi nei casi in cui le soluzioni proposte riguardano l’utilizzo delle informazioni contenute nei real world data o lo sviluppo di terapie digitali. Mediamente queste aziende sono riuscite a ottenere finanziamenti da 77 e 67 milioni di euro rispettivamente. E allora che digitale sia.

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