Alzheimer, rallentarlo con un farmaco sperimentale

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Hanno fatto scalpore i risultati preliminari di un nuovo farmaco sperimentale studiato per rallentare il cammino dell’Alzheimer, una forma di demenza che solo in Italia colpisce – secondo le stime – circa 600.000 persone. Questo anche perché, fino ad ora, le potenziali terapie per questa malattia hanno finito per naufragare o deludere. Sotto i riflettori c’è un nuovo anticorpo monoclonale ‘umanizzato’, Lecanemab (BAN2401), sperimentato da due aziende farmaceutiche, la giapponese Eisai la statunitense Biogen.

Ebbene, dopo tante delusioni da questo studio arriva una speranza. I risultati del trial di fase 3, che ha coinvolto 1.800 partecipanti con Alzheimer iniziale, mostrano che la terapia somministrata via flebo ha ridotto i segni clinici della malattia nelle forme precoci. I dati sono stati presentati al Clinical Trials on Alzheimer Disease di San Francisco e pubblicati sul New England Journal of Medicine. E i  ricercatori internazionali sono “cautamente ottimisti” sul fatto che i risultati saranno confermati nei futuri studi clinici.

Ma cosa ci dice la ricerca, e quali interogativi restano ancora aperti? A rispondere è Paolo Maria Rossini, direttore del Dipartimento Neuroscienze e Neuroriabilitazione dell’Irccs San Raffaele.

Lo studio sul farmaco sperimentale

“Nei soggetti che avevano assunto l’infusione endovenosa per flebo una volta al mese per 18 mesi di Lecanumab rispetto a quelli che avevano ricevuto un placebo, la malattia ha rallentato la sua progressione di circa un terzo (27% per la precisione) – spiega Rossini – Gli effetti collaterali sono stati osservati nel 9% dei casi, in genere di entità modesta. Questi due dati da soli giustificano il grosso interesse che ha suscitato questo studio – dice l’esperto – poiché si tratterebbe del primo farmaco in grado di impattare in modo significativo sull’evoluzione della malattia: non l’arresta e non la guarisce, ma la rallenta. È stato fatto un calcolo che, con questo tipo di trattamento, il paziente guadagna oltre un anno di autonomia rispetto a chi non lo assume”.

Attenzione, “lo studio si è rivolto a forme iniziali o addirittura prodromiche (con pochissimi sintomi) di demenza di Alzheimer e non sappiamo quindi se i risultati di efficacia si possano o meno estendere a forme più avanzate di malattia; tuttavia è comprensibile che quanto più precoce è la somministrazione tanto più il ‘cervello’ non danneggiato potrà essere salvaguardato e tanta più riserva neurale potrà essere utilizzata per vicariare i circuiti nervosi aggrediti dalla malattia”.

Chi potrebbe iniziare la terapia

“Oltre a una diagnosi precoce, sarebbe fondamentale dimostrare la presenza di beta-amiloide nel cervello dei  pazienti (tramite una Pet specifica o una puntura lombare), perché l’anticorpo monoclonale si lega alla beta amiloide cerebrale rendendola così aggredibile dal sistema immunitario del soggetto. In particolare, Lecanumab si legherebbe a forme molto piccole di amiloide, definite oligomeri, che svolgono un’azione di blocco della trasmissione sinaptica, cioè di quel meccanismo che permette ai neuroni di colloquiare tra di loro e di trasmettersi informazioni”.

Le domande ancora aperte

Non sappiamo ancora molte cose, ecco perchè è importante essere cauti. “Quanto durano gli effetti – si chiede Rossini – una volta interrotto il trattamento? Quanto a lungo il trattamento può essere portato avanti? Gli effetti collaterali aumentano al prolungarsi della terapia? Quali sono le interazioni con i farmaci che normalmente assumono le persone anziane (quelle di gran lunga più colpite da demenza) in particolare quelli che fluidificano il sangue come gli antiaggreganti e gli anticoagulanti visto che tra gli effetti più frequenti del nuovo farmaco sperimentale ci sono delle microemorragie a livello cerebrale?”.

Non solo: la nuova terapia sperimentale si rivolge ai pazienti con forme iniziali, non a tutti. Insomma, l’ottimismo degli specialisti appare giustificato, ma c’è ancora della strada da fare. Intanto la ricerca va vanti.

“Il nostro Paese ha, primo al mondo, in corso uno studio sistematico per la messa a punto di uno strumento di diagnosi precocissima: il progetto Interceptor finanziato da Aifa e dal ministero della salute, iniziato nel 2018 e che si concluderà a fine 2023”, ricorda Rossini. Proprio l’individuazione precocissima della malattia potrebbe consentire ai pazienti di avvalersi del nuovo anticorpo monoclonale, sempre che i risultati vengano confermati da ulteriori ricerche.

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