Payback e caro materie prime: la tempesta perfetta del biomedicale

Massimiliano Boggetti
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Non bastano la guerra, il caro energia e la crisi delle materie prime. A non far dormire la notte gli imprenditori italiani del settore biomedicale è la ‘spada di Damocle’ del payback. Un tema caldissimo, che vale circa 2,2 mld di euro per le aziende di un settore cruciale per la sanità, che è anche un’eccellenza per il nostro Paese. Proprio il payback è al centro anche di uno degli emendamenti alla manovra ‘segnalato’ da Fratelli d’Italia, che punta alla sospensione di questa misura introdotta come argine alla spesa sanitaria da parte delle Regioni (ma su questo le aziende hanno molto da ridire).

“E’ una cosa che vivo sulla mia pelle: stanno succedendo tante cose che stanno incastrandosi fra loro”, sottolinea a Fortune Italia il presidente di Confindustria Dispostivi Medici, Massimiliano Boggetti. 

“Oltretutto l’aumento dei costi delle materie prime è più pesante per noi, perché abbiamo tutti prodotti regolamentati da fascicoli tecnici. Non puoi immettere sul mercato un prodotto che non ha la certificazione CE, e ogni volta che si cambia un componente del tuo prodotto, da una scheda elettronica a una vite, devi passare di nuovo per la certificazione”, spiega. Insomma, “le nostre aziende sono ancor più vulnerabili allo shortage, che in parte ha un aspetto speculativo”.

L’impatto del caro materie prime

Confindustria dispositivi medici conta 4.546 imprese, per circa il 90% Pmi, attive in un mercato da 16,2 mld. Boggetti ricorda che, come settore, “siamo fortemente dipendenti, per quando riguarda i biomateriali e la parte elettronica. Ma oltretutto siamo blindati: non siamo neanche in grado di sostituire un fornitore senza impatti, anche in termini di tempi”, sulla produzione. Il settore dei dispositivi medici, precisa il presidente di Confindustria Dm, conta più di un milione e mezzo di prodotti. “Abbiamo stimato intorno al 30-35% di aumento delle materie prime, e parliamo di materiali di alta tecnologia”.

“In più c’è il fatto che questo fenomeno sta mettendo in crisi anche l’obsolescenza programmata dei macchinari: molte tecnologie oggi sono quasi a fine vita, e in alcuni casi la produzione di componentistica d’annata non è ripartita. Questo ci porta ad avere macchine presenti sul mercato, con una tecnologia che ha qualche anno, ma siamo privi dei pezzi di ricambio”. Un tema che ha un impatto importante.

Il paradosso del payback

“In tutto questo ci ritroviamo con il payback, che per il settore dei dispositivi medici si configurerebbe come una sorta di patrimoniale, una tassa indeducibile, su cui non possiamo rivalerci in alcun modo. Insomma, se il Governo non inserisce nella manovra la cancellazione del payback, le aziende del settore rischiano di chiudere i bilanci in perdita e di deteriorare il rating delle banche, che garantisce proprio alle aziende accesso al credito. Insomma, abbiamo avuto la ‘peste’ con Covid-19, la guerra e ora stiamo avendo la carestia, ma le aziende che vivono di debito bancario hanno il problema di accedervi. Chiudere il 2022 con bilanci in difficoltà, significa – aggiunge Boggetti – far fallire un settore senza che arrivi, nel concreto, un euro nelle tasche del Governo. E questo è un paradosso nel paradosso”.

I ricorsi

Sono ormai centinaia i ricorsi presentati ai vari Tar dalle aziende dei dispositivi medici sull’attuazione del payback, che obbliga le imprese a un esborso per ripianare lo sforamento dei tetti di spesa da parte delle Regioni. “Noi abbiamo impugnato il provvedimento, e vinceremo perché i numeri tra l’altro non tornano. Ma non è che i ricorsi delle aziende abbiano risolto il problema“. Nel mirino delle imprese, in particolare, l’articolo 18 del Decreto Legge Aiuti bis e il decreto del ministero della Salute che detta linee guida di attuazione del payback. “Il provvedimento presenta una serie di elementi che lo rendono inapplicabile, incostituzionale e ingiusto”, insiste Boggetti. 

“Le imprese che forniscono materiali in virtù di una gara vinta, non possono sapere se il tetto regionale verrà sforato, né sono in grado di ipotizzare se e quanto saranno chiamate a restituire. Questa incertezza è quanto di più pericoloso possa esistere per un’impresa. Il sistema inoltre non è compatibile con i principi contabili costituzionali che prevedono che i bilanci dello Stato siano prudenti, veritieri, realistici e fondati sull’attendibilità delle previsioni passate. Infatti definendo i tetti di spesa regionali in maniera retroattiva, non si tiene conto della mancata, ma necessaria, conoscenza da parte delle imprese di quale sia più o meno il budget di spesa a loro disposizione. Senza considerare che su quei bilanci le imprese hanno pagato le tasse, che non verranno mai restituite”.  

Insomma, per Boggetti “sono centinaia le imprese italiane su cui impatta il payback, che rischiano di fermarsi e chiudere. Si tratta soprattutto delle Pmi: ormai l’accesso al credit è diventato complicatissimo per via delle note difficoltà degli istituti bancari a erogare liquidità in questo momento. E con il payback le imprese dovranno accantonare poste di esercizio, fra l’altro indeducibili, che faranno chiudere il 2022 con bilanci in perdita, abbassando così il rating bancario e riducendo l’accesso acredito, essenziale per l’operatività aziendale”.

Ma se le imprese chiudono, a rischiare sono anche i cittadini. “Il pericolo è non riuscire a garantire le forniture di prodotti, anche salvavita, agli ospedali. La qualità delle tecnologie mediche potrebbe abbassarsi. E i medici si troveranno costretti a lavorare senza avere le tecnologie all’avanguardia fondamentali per poter esercitare al meglio la professione”, continua Boggetti.

“La programmazione sanitaria fatta attraverso le gare ha sempre funzionato. Il punto è che in un mondo regolamentato da gara pubblica d’appalto è impossibile pensare che a posteriori e retroattivamente si chieda di pagare alle aziende lo sforamento di un tetto di spesa che non fa alcuna ricognizione dei bisogni sanitari dei cittadini”.

Perseverare con il payback e le gare al ribasso, oltretutto, “significa contribuire a rendere l’Italia meno appetibile per investimenti nazionali ed esteri, quando invece abbiamo bisogno di far tornare in Italia produzione e ricerca. Realizzare un reshoring, soprattutto nel caso dei dispositivi medici, significa investire su un settore in grado non solo di tutelare il Paese in caso di eventuali nuove emergenze sanitarie, ma anche capace di far crescere il tessuto industriale in un comparto che è considerato oggi uno dei più promettenti, in grado di generare Pil e occupazione. Insomma, il payback è stato un problema del Governo Draghi, che ha scelto di attivarlo, ma adesso è un problema del Governo Meloni”. A livello politico il dibattito è in corso, e la posizione di FdI è netta. Non resta che stare a guardare.

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