La Shoah di medici, studenti e ricercatori

pietre d'inciampo Shoah
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La polvere del tempo rischia di far svanire volti e nomi, ecco perché è importante la Giornata della memoria. A ricordare a chi passeggia nelle nostre strade la Shoah – una ‘calamità’ (questo il significato del termine) che travolse gli ebrei dal 1933 al 1945, togliendo la vita a circa 7.500 ebrei italiani – sono i riflessi dorati delle delle pietre d’inciampo.

Mentre alla Scuola Superiore Sant’Anna di Pisa, culla di scienziati e ricercatori, si ricorre all’arte: “L’appello” di studentesse e studenti ebrei espulsi dalle università per colpa delle leggi razziali è l’installazione che apre le celebrazioni della Giornata della memoria nell’ateneo. Si tratta di una installazione dell’artista Gianni Lucchesi per restituire nomi, cognomi (e volti) delle vittime.

L'appello
L’appello/Foto Sant’Anna Pisa

La Shoah ebbe anche un pesante impatto sulla medicina e sulla ricerca scientifica del nostro Paese. E questo a causa dell’alto numero di medici privati del camice, o di docenti allontanati dall’università. Raffaele Lattes, Ettore Ravenna, Salomone Franco sono solo alcuni degli studiosi costretti a lasciare i loro studi, o il nostro Paese, per sfuggire alle persecuzioni razziali.

Ma c’è anche chi, da medico, ricorse alla scienza (e alla fantasia) per salvare vite umane. Era la mattina del 16 ottobre 1943, l’inizio del rastrellamento di massa da parte delle SS del ghetto. Decine di persone cercarono riparo al vicino ospedale Fatebenefratelli. “Arrivati sull’Isola – racconta a Fortune Italia Dario Manfellotto, per molti anni direttore del Dipartimento di Medicina interna dell’ospedale Fatebenefratelli e ora consulente Ospedale Fatebenefratelli – Gemelli Isola Tiberina – furono accolti dal medico Vittorio Sacerdoti e dal primario di Medicina interna Giovanni Borromeo, e quest’ultimo decise di ricoverarli tutti”.

Una veduta dell’ospedale dell’Isola Tiberina

Il Morbo di K

Proprio Borromeo, assieme al suo aiuto Adriano Ossicini (medico e psichiatra e poi senatore della Repubblica e ministro) e a Sacerdoti, ideò una malattia infettiva molto grave: “Il ‘Morbo di K’, dove la K stava a indicare l’ufficiale tedesco Herbert Kappler o il generale tedesco Albert Kesselring”, dice Manfellotto.

“Hanno protetto tante persone con questo artificio: i finti ricoverati vennero sistemati in un reparto speciale, in isolamento. Il morbo veniva descritto come una malattia degenerativa molto contagiosa”, continua Manfellotto. Per i tedeschi oltretutto il morbo di K evocava la malattia di Koch, ossia la tubercolosi: i militari ne erano terrorizzati.

I medici italiani descrivevano una malattia infettiva molto contagiosa, che iniziava con una fase caratterizzata da convulsioni, per poi degenerare nella paralisi degli arti e alla morte per asfissia. “Il tutto con l’avallo dei Fatebenefratelli. La paura del contagio allontanò le SS”, ricorda Manfellotto. E questo salvò decine di ebrei.

“Fra il ’43 e il ’44 l’ospedale romano costituì un baluardo della Resistenza. Trovò rifugio in ospedale anche l’avvocato Giuseppe Spataro, in seguito uno dei fondatori della Democrazia Cristiana, che fingendosi ammalato proseguiva la sua azione politca clandestina”.

“Anche Fra Maurizio Bialek”, priore dell’Ospedale San Giovanni Calibita all’Isola Tiberina, “fu parte attiva della Resistenza. Con una radio installata in Ospedale, potè comunicare con i partigiani. Verso la fine del maggio ’44 fascisti e tedeschi irruppero nel nosocomio alla ricerca della trasmittente: fu proprio Fra Maurizio a fare a pezzi la ricetrasmittente e a gettarla nel Tevere per evitare che fosse trovata”.

L’ospedale dell’Isola Tiberina “è considerato struttura di riferimento per la comunità ebraica romana, e anche quando ci fu l’attentato alla Sinagoga nel 1982 accolse decine di feriti”, ricorda Manfellotto.

L’impatto delle persecuzioni sulle università

La Shoah ha inghiottito numerosissime ricerche e studi clinici che sarebbero stati svolti in Italia, se ai docenti ebrei non fosse stato impedito di insegnare o curare. Insieme alle possibili carriere di decine di studenti. Le discriminazioni colpirono fortemente gli ordini professionali, che dovettero espellere gli ebrei, e le Università, che si videro costrette a licenziare i professori.

“La memoria è il talismano per capire il presente e per preparare il futuro, partendo dal passato”, ricordano i promotori dell’evento pisano, che ha ricevuto il patrocinio degli atenei di Pisa: Scuola Superiore Sant’Anna, Scuola Normale Superiore, Università di Pisa.

‘L’appello’, ha spiegato il suo autore, “mette al centro dell’attenzione la quotidianità degli studenti e ciò per permettere all’osservatore di immergersi in quella specifica dimensione e di immedesimarsi. Il termine ‘appello’, in ambito scolastico e accademico, ha un significato noto, chiamare studentesse e studenti per nome e per cognome per verificarne la presenza. Pensando all’espulsione di quei ragazzi dall’università, dopo la firma delle leggi razziali – ha detto Gianni Lucchesi – il termine ‘appello’ assume un’accezione inquietante, la chiamata a un atroce destino”.

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