Vaccini Covid, la Consulta chiude il caso sull’obbligo per i sanitari

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Ci sono stati medici e infermieri che, pur di non farsi vaccinare contro Covid-19, sono stati sospesi dal servizio. Altri che, come hanno poi rivelato le indagini, hanno accettato di eseguire (o attestare) false vaccinazioni. Ora sulla questione dell’obbligo di immunizzazione per gli operatori sanitari interviene la Corte Costituzionale.

La previsione per i lavoratori impiegati in strutture residenziali, socio-assistenziali e socio-sanitarie, dell‘obbligo vaccinale per la prevenzione dell’infezione da Sars-Cov-2 non ha costituito una soluzione “irragionevole o sproporzionata rispetto ai dati scientifici disponibili”, sottolinea la Consulta nella sentenza n.15 del 2023, depositata oggi e pronunciata il 1 dicembre scorso. In tutto sono tre le sentenze in materia depositate oggi sul tema dalla Corte.

L’obbligo per i sanitari è venuto meno nel novembre scorso. Più volte sulla vicenda è intervenuto il presidente della Fnomceo, la Federazione nazionale degli Ordini dei Medici Chirurghi e degli Odontoiatri, Filippo Anelli. Secondo le stime della Fnomceo i medici reintegrati nel Servizio sanitario nazionale dopo la fine dell’obbligo sarebbero meno di mille.

Anelli e le tre sentenze della Consulta

“Le tre sentenze depositate oggi dai Giudici della Corte Costituzionale in materia di obbligo vaccinale – ha commentato il presidente degli Ordini dei medici – costituiscono un grande riconoscimento delle ragioni della scienza e della tutela della salute collettiva”.

“Le ragioni della scienza sull’efficacia dei vaccini per la protezione della popolazione sono state riconosciute – continua Anelli – così come sono state testimoniate dalla adesione della stragrande maggioranza degli italiani, che si sono sottoposti alla vaccinazione, e dai 470.000 medici e odontoiatri italiani che hanno adempiuto all’obbligo vaccinale: il 99,2%, ossia la quasi totalità. La Corte ha ritenuto infatti che la scelta assunta dal legislatore al fine di prevenire la diffusione del virus, limitandone la circolazione, non possa ritenersi né irragionevole né sproporzionata. E questo alla luce dei dati epidemiologici e delle evidenze scientifiche disponibili”.

La Corte inoltre “ha ribadito con chiarezza che l’articolo 32 della Costituzione affida al legislatore il compito di contemperare il diritto alla salute del singolo con il coesistente diritto degli altri e quindi con l’interesse della collettività. E che la tutela della salute implica anche il ‘dovere dell’individuo di non ledere né porre a rischio con il proprio comportamento la salute altrui, in osservanza del principio generale che vede il diritto di ciascuno trovare un limite nel reciproco riconoscimento e nell’eguale protezione del coesistente diritto degli altri'”, dice Anelli.

E ciò in considerazione del ‘rilievo costituzionale della salute come interesse della collettività’, in nome del quale ‘ciascuno può essere obbligato, restando così legittimamente limitata la sua autodeterminazione, a un dato trattamento sanitario, anche se questo importi un rischio specifico’. “Di fronte alla situazione epidemiologica in atto, al carico dei sistemi sanitari, tenendo conto dei dati sull’efficacia e sicurezza dei vaccini, la scelta di prevedere per i sanitari il requisito della vaccinazione appare pienamente rispettosa dei principi di idoneità, necessarietà e proporzionalità”, dice Anelli.

La Consulta

Diversi tribunali avevano sollevato questioni di legittimità costituzionale in relazione all’obbligatorietà dei vaccini anti-Covid. Anche il Tar della Lombardia, chiamato a decidere un ricorso di una psicologa che, a causa dell’inosservanza dell’obbligo vaccinale, era stata sospesa dall’esercizio della professione, aveva dubitato della legittimità costituzionale della norma (ritenendola in contrasto con i principi di ragionevolezza e di proporzionalità, di cui all’articolo 3 della Costituzione).

Ebbene, la Corte ha affermato che la normativa ha operato un contemperamento non irragionevole del diritto alla libertà di cura del singolo, con il coesistente e reciproco diritto degli altri e con l’interesse della collettività, in una situazione in cui era necessario assumere iniziative che consentissero di porre le strutture sanitarie al riparo dal rischio di non poter svolgere la propria insostituibile funzione.

Il sacrificio imposto agli operatori sanitari, insomma, non ha ecceduto quanto indispensabile per il raggiungimento degli scopi pubblici di riduzione della circolazione del virus, ed è stato costantemente modulato in base all’andamento della situazione sanitaria.

La sentenza ha ritenuto non contraria ai principi di eguaglianza e di ragionevolezza anche la scelta legislativa di non prevedere per gli operatori non vaccinati un obbligo del datore di lavoro di assegnazione a mansioni diverse, a differenza di quanto  stabilito per coloro che non potessero essere sottoposti a vaccinazione per motivi di salute o per il personale docente ed educativo della scuola.

Una scelta giustificata dal maggior rischio di contagio, sia per sé stessi che per la collettività, legato all’esercizio delle professioni sanitarie. La sentenza, infine, ha deciso che quanto previsto dalle norme – secondo cui al lavoratore che avesse scelto didire no ai vaccini anti-Covid non erano dovuti, nel periodo di sospensione, la retribuzione né altro compenso o emolumento – ha giustificato anche la non erogazione al dipendente sospeso di un assegno alimentare in misura non superiore alla metà dello stipendio.

A questo punto, dati Covid permettendo, la questione pare chiusa. Ma costituisce un precedente di cui tener conto.

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