Chiusi in cameretta, i 50mila Hikikomori d’Italia

Hikikomori
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Incollati al pc o allo smartphone, sfiniti da sessioni di gaming fino a tarda notte. Sono gli Hikikomori italiani, giovanissimi che si auto-recludono e finiscono per smettere persino di andare a scuola. Un fenomeno nato in Giappone qualche decennio fa, quando dal Paese dei manga arrivò la notizia di un’epidemia di ragazzi chiusi in casa, spesso in una sola stanza, per mesi o anni.

Ne leggevamo con curiosità e un po’ di sgomento, ma ormai questo fenomeno sembra aver preso piede anche nel nostro Paese. Quanti sono e, soprattutto, chi sono questi ragazzi, spesso giovanissimi, che da un giorno all’altro si isolano da amici e compagni, finendo per chiudersi in casa?

L’Istituto di fisiologia clinica del Cnr ha condotto il primo studio nazionale per arrivare a una stima quantitativa dell’isolamento volontario nella popolazione adolescente. Ebbene, sarebbero più di 50mila i giovani “Hikikomori” italiani. Lo studio è promosso dalla onlus Gruppo Abele in collaborazione con l’Università della Strada. Vediamo cosa è emerso.

Perché Hikikomori

Hikikomori è un termine giapponese che in italiano si può tradurre come “ritirati sociali”: indica la tendenza, nei giovani o giovanissimi, di smettere di uscire di casa, di frequentare scuola e amici, per chiudersi nelle proprie stanze e limitare al minimo i rapporti con l’esterno, mantenendo i contatti prevalentemente attraverso Internet. 

La ricerca ha preso le mosse dallo studio ESPAD®Italia (European School Survey Project on Alcohol and Other Drugs), condotto annualmente fin dagli anni ’90 dal Cnr-Ifc sul consumo di sostanze psicoattive. “Nel 2021 – racconta a Fortune Italia Sabrina Molinaro, ricercatrice del Cnr-Ifc – abbiamo inserito il modulo sull’Hikikomori coinvolgendo un campione di oltre 12.000 studenti rappresentativo della popolazione studentesca italiana fra i 15 e i 19 anni”.

Lo studio

I ragazzi sono stati intervistati attraverso un apposito set di domande mirate a intercettare sia i comportamenti che le loro cause, percepite dai ragazzi stessi. “Il 2,1% del campione attribuisce a sé stesso la definizione di Hikikomori: proiettando il dato sulla popolazione studentesca dai 15 ai 19 anni a livello nazionale, si può stimare che circa 54.000 studenti italiani di scuola superiore si identifichino in una situazione di ritiro sociale”, continua Molinaro.

“Questo dato appare confermato dalle risposte sui periodi di ritiro effettivo: il 18,7% degli intervistati afferma, infatti, di non essere uscito per un tempo significativo, escludendo i periodi di lockdown, e di questi l’8,2% non è uscito per 1-6 mesi e oltre: in quest’area si collocano sia le situazioni più gravi (oltre 6 mesi di chiusura), sia quelle a maggiore rischio (da 3 a 6 mesi)”.

Non sono tutti Hikikomori. Le proiezioni parlano di circa l’1,7% degli studenti (44.000 ragazzi a livello nazionale) che si possono definire Hikikomori, mentre il 2,6% (67.000 giovani) sarebbero a rischio grave di diventarlo.

L’identikit

“Dalla nostra indagine – aggiunge Molinaro – emerge che i maschi sono più a rischio, mentre l’età più vulnerabile va dai 15 ai 17 anni, con un’incubazione delle cause del comportamento di auto-reclusione già nel periodo della scuola media”. C’è poi un legame con episodi di bullismo e cyber-bullismo: le vittime si ‘chiudono’ più facilmente. “Ma l’Hikikomori è anche altamente correlato all’uso a rischio di Internet” e al gaming. Poca passione per sport e attività sociali e una insoddisfazione rispetto ai rapporti con i pari completa l’identikit. 

La reazione dei genitori

“Un altro dato sorprendente riguarda la reazione delle famiglie: più di un giovane intervistato su quattro, fra coloro che si definiscono ritirati, ritiene che i genitori avrebbero accettato la cosa apparentemente senza porsi domande”, continua la ricercatrice. Si tratta del percepito dei ragazzi, ma colpisce questa sorta di accettazione.

La scuola

L’Hikikomori non è più una novità per gli insegnanti italiani. “Ci sono scuole che già prima di Covid prevedevano moduli che permettessero ai ragazzi con queste difficoltà di continuare a seguire le lezioni”, nota la ricercatrice. Covid-19 però “non ha aiutato. Sono particolarmente preoccupata per i giovanissimi, che a 12-13 anni con due anni chiusi in casa ha perso il momento in cui si inizia a sperimentare con il gruppo di pari in autonomia”, conclude Molinaro.

Ormai oggi i giovanissimi si incontrano quasi sempre solo per fare attività con un adulto di riferimento che li segue, ed è difficile vedere gruppi di ragazzini da soli, magari intorno a un pallone e senza un telefonino in mano. La nostra società si è modificata moltissimo, la permanenza prolungata davanti allo schermo è diventata un’abitudine. E scivolare verso l’Hikikomori è diventato più facile.

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