Chi soffre di un disturbo alimentare vive in apnea

disturbi alimentari
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Soffrire di un disturbo alimentare significa vivere ogni giorno in apnea. Quando siamo in apnea sott’acqua non riusciamo a sentire nulla se non, a volte, un fischio nelle orecchie e, se qualcuno ci chiama dalla riva, non lo sentiamo. Soffrire di un disturbo alimentare non ci permette di vedere nulla di quello che di bello siamo e abbiamo intorno, non ci fa vedere l’aiuto che gli altri provano a darci.

Io ho vissuto per diversi anni in apnea, quando all’età di 16 anni mi sono ammalata di anoressia nervosa. Ora di anni ne ho 25 e sono presidente e fondatrice di Animenta, una realtà che si occupa di disturbi alimentari su tutto il territorio nazionale.

In occasione del 15 marzo ho pensato di scrivere una lettera rivolta a chi, ancora oggi, non comprende la complessità di un disturbo del comportamento alimentare.

A chi crede che i disturbi alimentari siano capricci.
A chi crede che per guarire basti una dieta.
A chi pensa che siano solo una ricerca di attenzioni.
A chi ci ha visto, ma si gira dell’altra parte.

Io vorrei far ascoltare le storie, quelle che raccogliamo con Animenta, di chi queste malattie le vive tutti i giorni sulla propria pelle. Vorrei poteste capire cosa si prova a sentirsi impotenti davanti ad una malattia con cui non sai come dialogare perché non ti lascia parlare. Vorrei poteste sentirvi costantemente addosso quella sensazione di pericolo, per rendervi conto che quello che a voi sembra un capriccio è spesso l’unico modo che si conosce per mettersi in salvo. Vorrei ascoltaste tutte quelle famiglie che hanno perso i propri figli a causa della mancanza di cure.

Ancora troppo spesso i disturbi del comportamento alimentare vengono raccontati unicamente attraverso cibo e corpo. Ancora troppo spesso si parla di una ricerca della perfezione che si limita all’apparire. Ancora troppo spesso si pensa che i disturbi alimentari siano solo anoressia e bulimia.

Troppo spesso si sottovaluta il valore della riabilitazione nutrizionale. Altrettanto spesso questa diventa un tassello isolato in un puzzle che rimarrà incompleto, senza un approccio integrato che prenda in cura la persona, in tutte le sue dimensioni.

Un disturbo alimentare è quel grido di aiuto che rimane bloccato nella gola per anni. È quel bisogno di ascolto soffocato dal senso di responsabilità. È in quei confini mai tracciati per paura di perdere e di perdersi. È in tutti quei “domani” che ci si promette e che alla fine non arrivano mai.

Ancora troppo spesso ci si ferma a soluzioni semplici e lineari di fronte a situazioni complesse e piene di curve. Ancora troppo spesso i numeri si sostituiscono alle persone e gli aggettivi ai loro nomi. Una persona non è anoressica, ma soffre di anoressia nervosa.

Ci hanno definito una “epidemia silenziosa”. Ho riflettuto su queste due parole per tanto tempo e risuonano dentro di me come un ossimoro.

Come fa un qualcosa di così numeroso ad essere silente? In realtà, se si ascolta per davvero, si sente quanto rumore faccia il dolore di chi sta affrontando un disturbo alimentare. È un dolore che entra in casa dalla porta principale ma inizialmente nessuno si accorge del suo ingresso, è un dolore che sgretola le relazioni e che riguarda la persona che si ammala, ma anche la famiglia.

Noi non possiamo più essere una epidemia silenziosa: perché se è vero che dai disturbi alimentari si guarisce, è anche vero che di disturbi alimentari si muore. E si muore quando non sono fornite le cure in modo adeguato e tempestivo, quando si manda a casa una persona perché “non abbastanza grave”.

Ma c’è forse un’unità di misura che calcola il dolore?

I dati più recenti ci dicono che sono più di 3 milioni le persone che in Italia soffrono di disturbi alimentari e sono più di 3000 le persone che ogni anno perdono la vita. Ma non raccontano tutta la storia. Sono, infatti, tante le persone che non riescono ad avere accesso alla diagnosi o alle cure, perché non ci sono abbastanza centri per accoglierle.

Queste parole sono quindi un messaggio per chi combatte oggi, ma soprattutto un pensiero per chi ha combattuto ieri e oggi non c’è più.

Queste parole sono per chiedere, anzi esigere, rispetto per una sofferenza che ancora troppo spesso viene privata della sua dignità.

Queste parole vogliono ricordare a chi lotta e non si arrende che guarire è possibile.

*Aurora Caporossi, presidente e founder di Animenta.

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