Sanità, tra attese infinite e diseguaglianze Ssn in codice rosso

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Dopo la pandemia prenotare una visita o un esame è diventata un’odissea, così sempre più connazionali si trovano a pagare di tasca propria. La sanità pubblica è in profonda crisi, non solo economica, e il Ssn da ‘gioiello’ invidiato anche all’estero è divenuto terreno di scontri – anche fisici, pensiamo alle aggressioni nei confronti degli operatori sanitari – alimentando le diseguaglianze.

Già nel 2020 oltre 600 mila famiglie hanno dovuto sostenere spese “catastrofiche” per la sanità. E molte per curarsi si sono impoverite, sottolinea Fondazione Gimbe. 

“La crisi di sostenibilità del Ssn  sta raggiungendo il punto di non ritorno, tra l’indifferenza di tutti i Governi che negli ultimi 15 anni, oltre a tagliare o non investire in sanità, sono stati incapaci di attuare riforme coraggiose per garantire il diritto alla tutela della salute”, ha detto Nino Cartabellotta, presidente della Fondazione Gimbe. Ma attenzione: “La sanità pubblica è una conquista sociale irrinunciabile e un pilastro della nostra democrazia” e  “il livello di salute e benessere della popolazione condiziona la crescita economica del Paese”, ha sottolineato Cartabellotta, convinto che “la perdita di un Ssn universalistico porterà ad un disastro sanitario, sociale ed economico senza precedenti”.

L’effetto Covid

La pandemia ha indebolito la sanità pubblica, specialmente sul fronte del personale e il netto aumento del finanziamento pubblico negli ultimi anni è stato interamente assorbito dall’emergenza, tanto che ora le Regioni rischiano di tagliare i servizi. “I pazienti – ha detto Cartabellotta – vivono ogni giorno le conseguenze di un Ssn ormai in codice rosso per la coesistenza di varie malattie: imponente sotto-finanziamento, carenza di personale per assenza di investimenti, mancata programmazione e crescente demotivazione, incapacità di ridurre le diseguaglianze, modelli organizzativi obsoleti e inesorabile avanzata del privato. Un Ssn gravemente malato che costringe i pazienti ad attese infinite, migrazione sanitaria, spese ingenti, sino alla rinuncia alle cure“.

Liste di attesa

Il ritardo delle prestazioni sanitarie accumulato durante la pandemia ha determinato un ulteriore allungamento delle liste di attesa che le Regioni non riescono a smaltire, nonostante le risorse stanziate dal Governo. Secondo una recente audizione dell’Istat la quota di persone che hanno dovuto rinunciare a prestazioni sanitarie è passata dal 6,3% nel 2019 al 9,6% nel 2020, sino all’l’11,1% nel 2021. E se nel 2022 le stime attesterebbero un recupero con una riduzione al 7%, l’ostacolo principale rimangono le lunghe liste di attesa (4,2%) rispetto alle rinunce per motivi economici (3,2%).

Cure di tasca propria

Nel 2021 la spesa sanitaria in Italia ha raggiunto i 168 miliardi, di cui 127 miliardi di spesa pubblica (75,6%), 36,5 miliardi (21,8%) a carico delle famiglie e 4,5 miliardi (2,7%) sostenuti da fondi sanitari e assicurazioni (dati Istat).

Secondo il recente Rapporto Crea Sanità nel 2021 la spesa privata è in media 1.734 per nucleo familiare, ovvero il 5,7% dei consumi totali. Nel 2020 oltre 600 mila famiglie hanno dovuto sostenere spese “catastrofiche”, ovvero insostenibili rispetto ai budget, e quasi 380 mila famiglie si sono impoverite per spese sanitarie, in particolare nelle Regioni meridionali. “La chiave di lettura è chiarissima: la politica si è sbarazzata di una consistente quota di spesa pubblica per la sanità, scaricando oneri iniqui sui bilanci delle famiglie”, ha detto Cartabellotta.

Diseguaglianze in crescita

Il monitoraggio del ministero della Salute sugli adempimenti ai Livelli essenziali di assistenza (Lea) documenta “un gap Nord-Sud ormai incolmabile, che rende la “questione meridionale” in sanità una priorità sociale ed economica”. Infatti, guardando ai punteggi Lea nel decennio 2010-2019, tra le prime 10 Regioni solo due sono del centro (Umbria e Marche) e nessuna del sud; nel 2020 solo 11 Regioni risultano adempienti ai Lea, di cui solo la Puglia al Sud; eccetto Basilicata e Sardegna sono in Piano di rientro tutte le Regioni del centro-sud, con Calabria e Molise commissariate; e nel 2020 Lombardia, Emilia-Romagna e Veneto attraggono il 94,1% della mobilità sanitaria.

“Esistono poi –  ha enunciato Cartabellotta – altre diseguaglianze meno note: tra aree urbane e rurali, tra uomini e donne, oltre che correlate al grado di istruzione e di reddito. Il Ssn garantisce una “salute diseguale” che si riflette anche sugli anni di vita perduti”.

Longevità a macchia di leopardo

L’Eurostat documenta che in Italia si vive più a lungo nelle Regioni del Centro-Nord, con la Provincia autonoma di Trento in testa (84,2 anni), rispetto a quelle del Sud, con la Campania fanalino di coda (80,9 anni). Un inaccettabile gap di oltre 3,3 anni.

Innovazione, ma non per tutti

L’ultimo aggiornamento dei Lea risale al gennaio 2017, ma per mancanza di risorse non è mai stato approvato il “Decreto Tariffe” relativo a specialistica ambulatoriale e protesica. “Di conseguenza innovazioni quali la procreazione medicalmente assistita, lo screening neonatale esteso, ausili e dispositivi all’avanguardia (es. apparecchi acustici digitali, protesi di ultima generazione, carrozzine basculanti) oggi possono essere erogate solo dalle Regioni non in Piano di rientro con risorse proprie – ha rilevato Cartabellotta –  generando ulteriori diseguaglianze e tenendo in ostaggio i diritti dei pazienti”.

Sanità privata in salute

L’annuario statistico del Ssn pubblicato il 23 marzo restituisce l’entità dell’offerta delle strutture sanitarie private accreditate, ovvero rimborsate con il denaro pubblico. Nel 2021 risultano private accreditate: il 48,6% delle strutture ospedaliere (n. 995); il 60,4% di quelle di specialistica ambulatoriale (n. 8.778); l’84% di quelle deputate all’assistenza residenziale (n.7.984) e il 71,3% di quelle semiresidenziali (n. 3.005), ovvero le due tipologie di Rsa; il 78,2% di quelle riabilitative (n. 1.154).

“Esiste un vero e proprio ‘cavallo di Troia’ che erode risorse pubbliche dirottandole ai privati: il connubio tra fondi sanitari e assicurazioni, sostenuto dalle politiche del welfare aziendale”, ha detto Cartabellotta. I fondi sanitari erano nati per integrare le prestazioni non offerte dal Ssn (odontoiatria, long term care), ma di fatto per circa il 70% erogano prestazioni già incluse nei Lea tramite la sanità privata accreditata. E siccome le assicurazioni sono divenute veri e propri gestori dei fondi sanitari, puntualizza Cartabellotta, “i presunti vantaggi del welfare aziendale per i lavoratori iscritti ai fondi sono una mera illusione, perché il 40-50% dei premi versati non si traducono in servizi in quanto erosi da costi amministrativi e utili delle compagnie assicurative”.

“Se un Ssn pubblico, equo e universalistico rappresenta ancora una priorità del Paese Italia e un pilastro della nostra democrazia – ha concluso Cartabellotta – è necessario un repentino cambio di rotta, indicato dalla Fondazione Gimbe con il Piano di Rilancio del Ssn, che sarà presentato a Bologna il 31 marzo, in occasione della 15a Conferenza nazionale”.

Per la sanità pubblica in codice rosso serve un intervento d’emergenza, un defibrillatore. Fuor di metafora, senza investimenti mirati sul Ssn (anche sul personale), secondo Fondazione Gimbe questa volta il paziente rischiamo di perderlo.

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