Malattie cardiovascolari, obiettivo ridurre il rischio residuo

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Restano quasi sempre lontano dalle luci della ribalta, eppure costituiscono la principale causa di morte nel mondo: sono le malattie cardiovascolari. In Italia, sono responsabili di quasi 4 decessi ogni 10. Nel nostro Paese sono 800mila i pazienti in prevenzione secondaria, ossia in cura a seguito di un evento arteriosclerotico-cardiovascolare. È proprio qui che entra in gioco un aspetto decisivo e troppo spesso sottovalutato: il rischio cardiovascolare residuo. Un elemento che pesa sulla salute del cuore degli italiani, ma anche sui conti della sanità.

Rischio residuo

“Il rischio residuo è la probabilità di sviluppare un evento cardiovascolare maggiore, nonostante il paziente sia trattato adeguatamente e come raccomandato dagli attuali standard di cura”, ha spiegato Eugenio Di Brino, co-founder e partner di Altems Advisory e ricercatore all’Università Cattolica, nel corso dell’evento ‘Prevenzione cardiovascolare secondaria. Un nuovo paradigma di trattamento del rischio cardiovascolare residuo’. Sono due i gruppi di fattori che incidono sul rischio residuo. Da una parte, gli elementi immodificabili, quali età, sesso, predisposizione genetica. Dall’altra, abbiamo invece i fattori noti e modificabili: colesterolo, pressione arteriosa, diabete mellito, fumo, trigliceridi.

Un nuovo approccio terapeutico

Nel corso dell’evento, organizzato da Ls Cube con contributo non condizionante di Amarin, e moderato dalla caposervizio di Fortune Italia Margherita Lopes, è stato presentato un interessante studio realizzato da Altems, l’Alta Scuola di Economia e Management dei Sistemi Sanitari dell’Università Cattolica del Sacro Cuore. “Il nostro studio propone un nuovo approccio: abbattendo appena il 5% del rischio cardiovascolare residuo, si assicurerebbe al Ssn un risparmio di 170 mln, considerando una remunerazione teorica delle prestazioni di ricovero ospedaliero pari a 3 mld”, ha chiarito Di Brino.

Che cosa prevede questo approccio? “Si parte dalle modifiche dello stile di vita e delle abitudini alimentari. Serve poi un accesso rapido alle innovazioni tecnologiche, nuovi modelli di presa in carico, un efficace monitoraggio dell’aderenza alle terapie. E, certo, occorre un Piano nazionale aggiornato e dedicato per queste patologie”.

Una sfida per il Paese

“Le malattie cardiovascolari rappresentano oggi la prima sfida sanitaria per il Paese”, ha commentato Pasquale Perrone Filardi, presidente della Società Italiana di Cardiologia. “La ricerca cardiovascolare è il campo delle scienze biomediche che ha fatto registrare i progressi più significativi negli ultimi decenni. Spetta alla politica assicurare una sanità equa, solidale, accessibile a tutti. E superare il divario che permane fra Nord e Sud e persino all’interno delle singole regioni, nell’accesso alle cure”.

La moderatrice Margherita Lopes con Leonardo De Luca, Pasquale Perrone Filardi, Giovanni Esposito

Barriere prescrittive

“Le barriere prescrittive iniziano dalla fase ospedaliera – spiega Leonardo De Luca, vicepresidente dell’Anmco, l’associazione nazionale medici cardiologi ospedalieri – Non tutte le terapie salvavita raccomandate vengono prescritte al momento della dimissione ospedaliera per infarto. C’è poi una grande varietà interregionale. I problemi ci sono però anche quando le terapie sono prescritte, ma poi si assiste a una perdita della loro intensità, magari per un dosaggio inferiore al necessario. L’adesione corretta alle terapie dopo l’evento cardiovascolare è fondamentale”.

Gestire la cronicità

Chi sopravvive a un attacco cardiaco diventa un malato cronico, con un alto rischio di complicazioni. “La ricerca corre sul fronte delle malattie cardiovascolari – commenta Giovanni Esposito, presidente della Società italiana di cardiologia interventistica Gise – Siamo riusciti in poco tempo a fornire un’opportunità di terapia per le patologie cardiovascolari acute, com’è avvenuto nel caso dell’angioplastica. Ma una maggiore sopravvivenza significa una maggiore cronicità, a cui non eravamo preparati; è stato demandato tutto ai territori. Oggi dobbiamo applicare l’innovazione anche nella gestione territoriale delle cronicità. Abbiamo le armi per ridurre questo drammatico mismatch tra evidenza e pratica clinica nel trattamento della cronicità”.

Difformità territoriali

“Il gap nella medicina territoriale non è solo quello tra Nord e Sud del Paese – spiega Tiziana Nicoletti, responsabile del Coordinamento delle Associazioni Malati Cronici e Rari di CittadinanzAttiva –  ma anche quello fra grandi centri e aree interne, che sono sempre più abbandonate a se stesse. Nei piccoli centri, troppo spesso quando torni a casa, non hai modo di ricevere un’adeguata assistenza perché mancano i professionisti. Così si rinuncia alle cure con un notevole aggravio economico per il Ssn. L’autonomia differenziata non farà che acuire queste difformità”.

Le risposte della politica

Alle questioni poste dagli specialisti rispondono le rappresentanti delle Istituzioni. “Serve una strategia comune – afferma la senatrice della Lega Elena Murelli, presidente dell’Intergruppo Parlamentare sulle malattie cardio cerebro e vascolari – Servono investimenti su ricerca e sviluppo, per trovare nuovi farmaci, sull’innovazione tecnologica. E poi è importante la collaborazione: creare una rete tra medici, professionisti sanitari e pazienti, che sono i primi a poter dare feedback sulla patologia”.

Per la senatrice Elisa Pirro, membro della Commissione Sanità l’impegno è quello di “fare un patto trasversale per finanziare più e meglio la sanità: dobbiamo arrivare ai livelli  degli altri Paesi europei, se riusciremo a mettere 10-15 miliardi in più sul nostro Ssn ogni anno, riusciremo a finanziare meglio tutto, il piano cronicità, fare più campagne di screening, a pagare meglio i professionisti perché non scappino. Riducendo del 5% il rischio secondario residuo, quei 170 mln risparmiati potrebbero andare a finanziare il Piano per la cronicità”.

 

 

 

 

 

 

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