Salgarello: “Come sta cambiando la chirurgia plastica”

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Anche quando il talento col bisturi è scritto nel Dna, imparare dai migliori aiuta. Ne è convinta Marzia Salgarello, chirurgo plastico ricostruttivo presso la Fondazione Policlinico Gemelli e presidente di Beautiful After Breast Cancer (BABC) Italia Onlus, che sognava il ‘camice bianco’ fin da bambina, avendo davanti agli occhi l’esempio del papà Giovanni, chirurgo che il 13 maggio del 1981 salvò Giovanni Paolo II ferito all’addome dal proiettile di Alì Agca.

Marzia Salgarello è una delle (“ancora poche”) donne della sanità ad aver rotto il soffitto di cristallo: professoressa associata di Chirurgia Plastica all’Università Cattolica, ha portato a casa riconoscimenti nazionali e internazionali (tra cui il Premio Ivo Pitanguy), ed è ormai un punto di riferimento per la chirurgia ricostruttiva ed estetica del seno e la microchirurgia dei vasi linfatici. Passione e tenacia, ci racconta, sono gli ingredienti fondamentali per una donna che sceglie una professione che “unisce precisione a creatività”.

Quando è nata la passione per la chirurgia?

Come figlia di un chirurgo generale avevo deciso a 6 anni che sarei diventata a mia volta un chirurgo, provocando qualche sorriso nei miei compagni di scuola. Ma era una scelta già allora fatta con grande trasporto. Così, crescendo, con passione e convinzione ho fatto Medicina, con l’idea di avviarmi alle scienze chirurgiche. Solo che al sesto anno, un po’ condizionata dalla figura di papà – uomo dal grande carisma – ho scoperto con sconcerto che la chirurgia generale non mi affascinava. A quel punto fu proprio mio padre a suggerirmi di guardarmi intorno: dopo essere entrata nella sala di chirurgia plastica mi sono letteralmente innamorata di questa disciplina, così creativa, delicata, di precisione.

Negli ultimi anni la chirurgia plastica è cambiata moltissimo.

È vero: la chirurgia plastica si compone di due discipline, quella ricostruttiva e la chirurgia estetica. La ricostruzione del seno dopo un tumore rappresenta un punto di fusione: ci vuole tanta tecnica, ma anche creatività e attenzione al bello. Il punto è che il concetto di bello cambia nel tempo, il gusto si evolve. E talvolta arrivano i problemi.

Lei è un talento della ricostruzione, ma oggi in alcuni casi vediamo risultati della chirurgia plastica direi ‘estremi’. Quanto è difficile per uno specialista dire di no alle richieste che riceve?

C’è un canone di bellezza che muta nel tempo, ma penso esista quella che possiamo chiamare attenzione a non creare una stonatura: in sala operatoria, come in musica, ricerchiamo l’armonia. Dunque quando c’è una richiesta eccessiva, che percepiamo come anomala, la paziente va un po’ indirizzata. E questo capita tutti i giorni. Purtroppo vediamo spesso giovani influenzate dai social chiedere cose che dopo pochi anni non andrebbero più bene per il loro volto o il loro corpo. Ecco perché le pazienti vanno ascoltate: solo in questo modo potremo capire cosa desiderano davvero e soprattutto perché. Essere d’accordo sul risultato è fondamentale prima di realizzare l’intervento.

I programmi di morphing possono essere utili al chirurgo plastico? E l’AI?

I primi sono strumenti utili, ma non devono essere vincolanti: non parliamo di statue ma di carne viva. Possono aiutare la paziente a visualizzare quale potrebbe essere il risultato finale. L’intelligenza artificiale sarà invece un grande strumento nel futuro, anche se in chirurgia plastica dobbiamo ancora capire dove ci porterà. Al momento i risultati più interessanti li stiamo vedendo nella ricerca sui farmaci, per il resto le possibilità sembrano molteplici ma restano tutte da capire.

La medicina ha fatto passi da gigante contro il tumore al seno, ma il Servizio sanitario nazionale ancora oggi copre solo i costi della mastectomia, la fase demolitiva dell’intervento, prevedendo la ricostruzione differita. Lei con Beautiful After Breast Cancer Italia Onlus si batte per garantire a tutte le donne operate la ricostruzione immediata. Perché?

La ricostruzione storicamente è iniziata in differita, ma all’epoca gli interventi erano molto demolitivi. Ora la mastectomia è diventata sempre più conservativa e non ha senso rinviare la ricostruzione, anche perché nell’attesa la pelle si ritira e l’effetto finale peggiora. Ormai sappiamo che, per la donna che affronta la malattia, è fondamentale la ricostruzione immediata, indicata nella stragrande maggioranza dei casi ma che non è purtroppo rimborsata: viene eseguita a spesa delle singole aziende ospedaliere. Insomma, la pagano i singoli centri. Il problema è che non esiste un Drg apposito: la politica deve rendersi conto che la chirurgia è progredita, ci sono nuove protesi, nuove tecniche, si usano altri materiali e dunque occorre un Drg ad hoc. Poi c’è un altro problema: per risparmiare si fanno interventi ricostruttivi ‘base’ e non si riesce a personalizzare. Ma se la tecnologia con le protesi davanti al muscolo ha cambiato le ricostruzioni, questa tecnica non va bene per tutte. In alcuni casi l’auto-protesi potrebbe essere una soluzione migliore, ma è molto costosa.

Una curiosità: saprebbe dirmi quante pazienti ha operato?

Ho tenuto il conto per molti anni e poi ho smesso (sorride, ndr), però continuo a tener traccia degli interventi per ricordarne le particolarità. Penso che un modo di progredire sia anche quello di osservarsi.

Lei ha rotto il soffitto di cristallo, che in sanità appare piuttosto solido. Se dovesse dare un consiglio a una giovane donna che sta pensando di dedicarsi allo studio della medicina, cosa le direbbe?

Che deve avere tantissima voglia di studiare, tantissima passione e deve essere disposta a sacrificare tante cose, non solo per sé ma anche per gli altri, penso a quando avrà dei figli. Un altro consiglio è quello di imparare dai migliori: ho avuto dei maestri che mi hanno aiutata a crescere, in Europa e fuori. Dopo ogni esperienza era come aver fatto un salto di livello: trovo che questo sia estremamente importante. Infine c’è un’ultima cosa da sapere: oggi le donne che fanno medicina sono più degli uomini, ma nelle posizioni apicali negli ospedali in Europa sono il 25%, in Italia il 20%, nella mia università il 10%. Insomma, occorre essere preparate: ne parlavo con una studentessa americana, che mi diceva di essere un po’ ‘bossy’ (autoritaria, ndr). Ecco, direi che essere un po’ bossy può aiutare.

 

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