Alzheimer: potrebbe essere trasmissibile? Lo studio

Alzheimer
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Ha fatto rumore nei giorni scorsi una notizia arrivata dalla Gran Bretagna: alcuni casi di Alzheimer sarebbero stati acquisiti in seguito a trattamenti medici effettuati decenni prima. Nel mirino, un particolare tipo di ormone della crescita (da tempo non più in uso). Secondo uno studio, pubblicato su ‘Nature Medicine’, esiste dunque la possibilità che l’Alzheimer sia stato trasmesso da una persona all’altra, attraverso un trattamento medico. 

L’idea della trasmissibilità della malattia che ruba i ricordi è già angosciante, ma lo è ancor di più il legame con una terapia usata nei bambini con deficit della crescita. Allora che cosa è successo davvero, e cosa dicono i ricercatori dell’University College London nel loro studio? Fortune Italia ha chiesto un commento a Paolo Maria Rossini, responsabile del Dipartimento di Scienze neurologiche e riabilitative dell’Irccs San Raffaele Roma.

Le parole dei ricercatori

“Non vi è alcun indizio che la malattia di Alzheimer possa essere trasmessa tra le persone durante le attività della vita quotidiana o le cure mediche di routine”, ha sottolineato l’autore principale della ricerca, il professor John Collinge, direttore dell’UCL Institute of Prion Diseases e consulente neurologo dell’UCLH. “Ai pazienti che abbiamo descritto è stato somministrato un trattamento medico specifico” e da tempo non più in uso, “che prevedeva l’iniezione di materiale che ora sappiamo essere stato contaminato da proteine correlate alla malattia”.

L’Alzheimer, infatti, è solitamente una malattia lega all’accumulo di proteina beta-amiloide e colpisce in tarda età o, più raramente, è una condizione ereditaria che si verifica a causa di un gene difettoso.

La terapia nel mirino

I soggetti erano stati trattati da bambini con un tipo di ormone della crescita umano estratto dalle ghiandole pituitarie di cadaveri (ormone della crescita umano derivato da cadavere o c-hGH). Una terapia ritirata dal mercato nel 1985, ma usata per almeno 1.848 bimbi nel Regno Unito tra il 1959 e il 1985. A causare il ritiro dal mercato, la scoperta di alcuni lotti contaminati da prioni che avevano causato la malattia di Creutzfeldt-Jakob, simile alla ‘mucca pazza’ e determinata da prioni. Il c-hGH è stato poi sostituito con l’ormone della crescita sintetico.

Gli stessi ricercatori avevano precedentemente riferito che alcuni pazienti affetti da CJD a causa del trattamento, avevano anche sviluppato precocemente depositi della proteina beta-amiloide nel cervello. Non solo: i campioni del farmaco contaminati con la proteina beta-amiloide trasmettevano la patologia ai topi di laboratorio a distanza di anni. Dunque il rischio per le persone trattate di sviluppare Alzheimer esisteva.

I cinque casi recenti

Ebbene, quest’ultimo studio descrive il caso di otto persone seguite presso la National Prion Clinic dell’UCLH di Londra, cui era stato somministrato l’ormone della crescita contaminato quando erano piccoli. Cinque presentavano sintomi di demenza e diagnosi di Alzheimer; un’altra persona rientrava nel quadro di lieve deterioramento cognitivo. Inoltre questi pazienti avevano tutti tra i 38 e i 55 anni quando hanno iniziato a presentare sintomi, troppo giovani per avere la forma sporadica della malattia.

I controlli

Le analisi dei biomarcatori hanno supportato la diagnosi di Alzheimer in due pazienti ed erano indicative della malattia in un’altra persona; un’analisi autoptica ha mostrato la presenza della patologia di Alzheimer in un altro soggetto. L’età insolitamente giovane sintomi ha acceso un campanello d’allarme nei ricercatori, anche perchè nei cinque pazienti in cui erano disponibili campioni per i test genetici, il team ha escluso la malattia di Alzheimer ereditaria.

I rischi

Bisogna sottolineare, come fanno i ricercatori britannici, che il trattamento con c-hGH non viene più utilizzato, e dunque non vi è alcun rischio di nuova trasmissione attraverso questa via. Non sono stati segnalati casi di Alzheimer acquisiti da altre procedure mediche o chirurgiche. Nè vi sono indizi che la beta-amiloide possa essere trasmessa nella vita di tutti i giorni, o durante l’assistenza medica.

Tuttavia, i ricercatori avvertono che i loro risultati evidenziano l’importanza di rivedere le misure per garantire che non vi sia pericolo di trasmissione accidentale di beta-amiloide attraverso altre procedure mediche o chirurgiche.

“I riconoscimento della trasmissione della patologia da amiloide-beta in queste rare situazioni – ha detto Collinge – dovrebbe portarci a rivedere le misure per prevenire la trasmissione accidentale attraverso altre procedure mediche o chirurgiche, per evitare che tali casi si ripetano in futuro”.

Come ha puntualizzato il collega e coautore Jonathan Schott dell’UCL Queen Square Institute of Neurology, neurologo e Chief Medical Officer presso l’Alzheimer’s Research UK, “le circostanze attraverso le quali crediamo che questi soggetti abbiano tragicamente sviluppato l’Alzheimer sono altamente insolite. E non vi è alcun rischio che la malattia possa diffondersi tra le persone o nella routine medica”. Ma allora cosa ci dice questo lavoro?

L’analisi del neurologo

“Lo studio – sottolinea Rossini – suggerisce la possibilità che in farmaci derivati da ipofisi umane (in particolare da cadaveri di pazienti da cui un tempo si etraeva l’ormone della crescita con cui venivano trattati i nanismi ipofisari) ci potessero esserci dei ‘contaminanti’ (virus o parti di essi come i prioni) in grado in indurre neurodegenerazione e demenza. Già in passato era accaduto che farmaci contetenti derivati da ipofisi umane di soggetti portatori della demenza di Creutzfeld-Jakob avevano indotto una ‘piccola epidemia’ di questa forma di demenza per cui fu immediatamente interrotta questa produzione, ma poichè passano molti anni tra la somministrazione e lo sviluppo della malattia, il numero dei ‘trattati’ era nel frattempo molto cresciuto”.

La novità

In questo studio “c’è un risultato del tutto nuovo, su cui il gruppo di John Collinge sta lavorando da anni: cioè che soggetti trattati con derivati da ipofisi di derivazione umane per nanismo, a distanza di anni non sviluppano la sindrome di Jakob-Creutzfeldt (cosa nota), ma una forma di demenza con caratteristiche tipiche dell’Alzheimer (inclusa la presenza di placche di beta-amiloide e di grovigli neurofibrillari di proteina tau) a esordio inoltre molto precoce (ben prima dei 50 anni). Qui sta la novità. Ovviamente questa osservazione è molto interessante ed anche preoccupante – dice Rossini – perchè mentre il numero annuale di demenze tipo ‘mucca pazza’ è nel nostro Paese di qualche decina di casi l’anno, le demenze tipo Alzhemer contano decine di migliaia di nuovi casi ogni anno per un totale che attualmente si aggira intorno al 50% di tutti i casi di demenza in Italia e cioè ben oltre le 500.000 unità”.

I prioni e l’Alzheimer

Quanto all’ipotesi della trasmissibilità dell’Alzheimer legata ai prioni, “questa non ha mai ricevuto conferma negli ultimi decenni da nessuna delle ricerche effettuate anche sull’uomo soprattutto di tipo post-mortem (cioè sul cervello si soggetti scomparsi a causa di Alzheimer) in cui non sono mai stati rilevati con certezza derivati prionici diretti o indiretti”, continua Rossini.

“Poichè però questa malattia ha un lunghissimo periodo di ‘incubazione’ durante il quale i meccanismi neurodegenerativi aggrediscono e distruggono in tempi successivi sinapsi e cellule nervose senza però manifestarsi clinicamente (grazie alla quota di riserva neurale e cognitiva di cui ciascuno di noi è dotato geneticamente e che ha svoluppato nel corso della vita, e che torna utilissima nel corso dell’invecchiamento del cervello), potrebbe essere che i prioni partecipino solo alle prime fasi in cui si attivano i processi che portano prima alla formazione di amiloide, che si aggrega progressivamente in fibrille e poi in placche e successivamente in grovigli neurofibrillari che ‘soffocano’ dall’interno i neuroni aggrediti. In altre parole – conclude lo scienziato italiano – potrebbero essere delle ‘comparse’ che circondano i ‘primi attori,’ svolgendo un qualche ruolo che però non credo sia generalizzabile alla forma più diffusa di Alzheimer”.

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