Social ‘effetto specchio’? La distanza tra immagine e realtà

social media

Quanto siamo noi stessi sui social? E soprattutto, quanto della nostra essenza, del nostro pensiero, viene davvero trasmesso attraverso un post? Viene da chiederselo, al netto dei profili fake e dei troll che impazzano sulle diverse piattaforme. Perché se è vero che il nostro obiettivo è spesso condividere le nostre percezioni, i nostri stati d’animo, i tratti della nostra personalità, è altrettanto innegabile che i “misundestanding” sono dietro l’angolo. O, meglio, dietro ad un semplice clic di invio di un messaggio.

E purtroppo, se puntiamo ad offrire uno spaccato affidabile di noi e cerchiamo di farlo, chi è dall’altra parte dello schermo rischia di crearsi un’immagine impropria, artefatta e sicuramente non proprio aderente al nostro essere. E’ quasi un atto d’accusa al mondo impalpabile di Facebook e degli altri social, quello che emerge da una ricerca coordinata da Qi Wang, direttore del Culture & Cognition Lab presso l’Università Cornell, pubblicata su Plos One.

Perché lo studio mette a nudo quanto e come la percezione degli utenti dei social possa risultare difforme dall’immagine che vogliamo offrire con i nostri post, le immagini che condividiamo, i commenti. Con un flusso informativo che, pur se all’interno di una bolla di amicizie più o meno serrate nella vita reale, rischia di trasformarsi in un boomerang.

Perché, a detta dei ricercatori d’Oltre Oceano, analizzando gli aggiornamenti degli stati di Facebook emergono sostanziali discrepanze tra il “come siamo” e il come ci percepiscono gli altri, con alterazioni più o meno grossolane della personalità. Un esempio: dallo studio appare chiaramente che, in genere, chi ci segue sul social tenda a percepire un livello di autostima sostanzialmente più bassa rispetto a quella che noi stessi percepiamo. E se non si tratta di una personalità quasi “sdoppiata”, tra social e vita reale, poco ci manca.

Quanto proponiamo, insomma, può essere non proprio vicino al percepito che abbiamo di noi stessi. In questo senso il mondo virtuale di Facebook può risultare davvero ingannevole e difficile da decodificare per gli altri. Il che deve imporre una riflessione e forse farci ragionare sul linguaggio e sulle immagini che condividiamo o apprezziamo.

La ricerca in questo senso, diventa una sorta di “specchio”. Ci spiega chiaramente come esista una sorta di processo in costante aggiornamento che il pubblico che ognuno di noi ha continua a costruire, per formarsi un’immagine e un giudizio di noi che in molti casi non è proprio vicino al vero.

Il motivo? purtroppo si lavora su una sorta di “mosaico” fatto di immagini, commenti, stati, post che contribuiscono a creare una vera e propria identità digitale. Purtroppo però capita che questa non sia troppo vicina a quella reale.

Lo rivela lo stesso Wang in una nota dell’ateneo, preconizzando potenziali difficoltà alla realizzazione del processo di conoscenza virtuale di una persona: “Una discrepanza tra chi siamo e il modo in cui le persone ci percepiscono potrebbe influenzare la nostra capacità di sentirci connessi online e i vantaggi derivanti dall’interazione con i social media”, spiega. L

’analisi dei post rivela ad esempio una sostanziale maggior estroversione delle donne rispetto agli uomini. Ma è solo un esempio. Quello che conta è che ognuno tende a proporre con la sua presenza social le proprie strutture culturali, ma non sempre questo “passa” attraverso post e condivisioni.

Lo studio, insomma, mette in luce quanto sia difficile e potenzialmente fallace aprirsi al pubblico social. E può diventare una base di partenza per chi, in futuro, si propone di creare connessioni e sviluppare interfacce social più capaci di offrire genuinità e possibilità di espressione che davvero siano d’aiuto perché ognuno si riconosca davvero in ciò che propone virtualmente agli altri. Il tutto, ricordando che comunque di fronte ai potenziali profili fake dobbiamo sempre affidarci al percorso cerebrale. E non fermarci solo alla valutazione delle immagini. Perché la vista può ingannare.

Ce lo ricorda uno studio di qualche tempo fa dell’Università di Sidney pubblicata su Vision Research e coordinato da Thomas Carlson. Basandosi sulle rilevazioni legate  all’elettroencefalogramma, gli esperti australiani sono riusciti a comprendere come il cervello delle persone sia in grado di rilevare i visi falsi generati attraverso programmi di intelligenza artificiale in modo ben più efficace di quanto emerga dallo sguardo.

Sia chiaro: non si tratta di un metodo infallibile, altrimenti non avremo l’invasione di visi e video fake che giornalmente compaiono sui social media. Ma si tratta comunque di un’osservazione da non sottovalutare, in un’epoca in cui è facile cadere in vere e proprie “trappole” informatiche opportunamente preparate.

Stando allo studio, condotto proprio su quanto avviene in termini di segnali cerebrali, il cervello sarebbe capace di percepire oltre la metà dei visi e dei video ingannevoli, esattamente il 54%. Invece, la sola percezione oculare si fermerebbe più o meno a poco più di un terzo delle identificazioni di profili “tarocchi”, intorno al 37%.

La nostra mente, insomma, ci può aiutare. Sia nel “presentarci” virtualmente, proponendo noi stessi in modo da essere compresi dagli altri, sia nel percepire quanto è ingannevole. Basta avere tempo. E non fermarsi alla prima impressione. Così si rischia meno di restare delusi.

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