Depressione, ‘spegnerla’ con microdosi di farmaco per malattie autoimmuni

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Circa il 6% degli adulti in Italia presenta sintomi depressione, una malattia che aumenta con l’età (9%) e con le difficoltà economiche (30%). E che è sfidante dal punto di vista terapeutico tanto che, nonostante le diverse opzioni disponibili, un terzo dei pazienti con depressione maggiore non raggiunge una remissione sintomatica completa.

Un’interessante novità arriva ora da uno studio firmato dai ricercatori dell’Irccs Ospedale San Raffaele su ‘Brain Behavior and Immunity’.

Il lavoro, infatti, dimostra per la prima volta come la somministrazione a bassissime dosi di un farmaco già usato per le malattie autoimmuni sia utile ai pazienti con disturbo depressivo maggiore e disturbo bipolare. Come abbiamo visto, non tutti i pazienti beneficiano delle terapie disponibili, e il rischio di incappare in forme di depressione resistente al trattamento è in agguato. Va ancora peggio nel Disturbo bipolare, ssociato a tassi di successo estremamente bassi dei farmaci antidepressivi.

Depressione e infiammazione

Ma allora come è venuto in mente agli studiosi di utilizzare l’interleuchina contro la depressione? Studi precedenti avevano dimostrato che un’attivazione infiammatoria sistemica precede e si associa alla comparsa di episodi depressivi nel corso del disturbo depressivo maggiore o del disturbo bipolare. Inoltre il 30-50% delle persone con disturbi dell’umore presenta uno stato infiammatorio rilevabile a livello clinico. E anche la depressione che resistente alle terapie è accompagnata da uno stato infiammatorio.

Non a caso, i soggetti depressi sono più vulnerabili alle malattie infiammatorie e autoimmuni. E queste malattie scatenano la depressione anche in chi non ne ha mai sofferto. Le evidenze più recenti suggeriscono che questa attivazione pro-infiammatoria sia una conseguenza di un più generale squilibrio immunitario, con senescenza delle cellule linfocitarie. Ecco allora che i ricercatori hanno pensato di stimolare le componenti regolatorie del sistema immunitario, non bloccandolo (come tentato in passato, con farmaci anti-infiammatori e anticorpi monoclonali), ma indirizzandone l’attività.

La molecola chiave

Al centro dello studio l’interleuchina 2, normalmente presente nell’organismo: è in grado di influenzare l’attività dei linfociti T, stimolando la produzione di nuove cellule e le loro funzioni regolatorie sull’immunità e sull’infiammazione. Questa molecola ha dimostrato un’efficacia anti-infiammatoria in altre patologie autoimmuni ed è già sul mercato, in formulazioni diverse da quelle ‘micro’ utilizzate in questo studio.

Lo studio

Nel lavoro sono stati reclutati 36 pazienti nel reparto per i disturbi dell’umore dell’Irccs Ospedale San Raffaele – Turro e sono stati randomizzati per ricevere interleuchina 2, o placebo. I ricercatori hanno definito un trattamento di potenziamento antidepressivo con interleuchina 2 a basso dosaggio, associato alle terapie antidepressive che i pazienti stavano assumendo. Ebbene, questo approccio si è rivelato sicuro ed efficace. Infatti i partecipanti hanno mostrato un potenziamento della risposta antidepressiva, anche quando erano affetti da forme di depressione resistente ai trattamenti.

“Questo – sottolinea Sara Poletti, ricercatrice dell’Unità di Psichiatria e Psicobiologia clinica dell’Irccs Ospedale San Raffaele – Turro – è il primo studio di controllo randomizzato a supporto dell’ipotesi che il trattamento per rafforzare il sistema immunitario, e in particolare le cellule T, può essere un modo efficace per correggere le anomalie immuno-infiammatorie associate ai disturbi dell’umore e al tempo stesso, potenziare la risposta antidepressiva”.

Un approccio che, secondo il team, può modificare la pratica clinica nel caso di depressione e disturbo bipolare. “Abbiamo infatti evidenziato con questa ricerca gli effetti terapeutici di Interleuchina 2 a basso dosaggio – evidenzia Francesco Benedetti, responsabile dell’Unità di ricerca in Psichiatria e Psicobiologia Clinica e professore di Psichiatria all’Università Vita -Salute San Raffaele – senza rilevare effetti collaterali. Speriamo che queste evidenze aprano ora la strada a un nuovo modo di intervenire sulla depressione resistente ai trattamenti”.

La ricerca non si ferma qui

Ma il team non si ferma qui. E già indaga su un’altra molecola: la minociclina. “Ne studiamo gli effetti sul cervello con tecniche innovative di Pet e risonanza magnetica; studiamo inoltre come la storia di esposizione alle malattie infettive e alle esperienze avverse possa aver contribuito a creare quella condizione di disfunzione immunitaria che abbiamo verificato nei partecipanti ai nostri studi. La ricerca prosegue, e pensiamo che in un futuro saremo in grado di identificare già all’inizio della malattia le persone che, anziché dover sopportare la depressione per mesi senza benefici dalle cure disponibili, potranno essere curate fin da subito – conclude Benedetti – agendo sul sistema immunitario”. Con una speranza di guarigione.

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