Ricerca, il dilemma tra scienza ed ego degli studiosi

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“Publish or Perish”. Pubblica o scompari. Per chi fa ricerca, questa regola traccia drammaticamente un solco nell’attività. E a volte porta anche fuori strada, proponendo studi non propriamente completi e validi secondo i dogmi della scienza. Ma occorre una sorta di “moratoria”. Anche per non rischiare di sentirsi troppo in alto rispetto a quanto in realtà si sia.

Perché essere oggettivi nei giudizi non è mai semplice. E non è certo facile riconoscere che un altro ha raggiunto il risultato che abbiamo inseguito, scoprendo una nuova via o piuttosto spiegando un determinato passaggio scientifico. Ma esistono dei canoni, da rispettare. Sono le buone pratiche, che il mondo della ricerca condivide.

Ci sono percorsi dai quali non si deve deragliare, pena il ritrovarsi esposti a giudizi negativi per uno studio che viene discusso e smontato. E allora? Allora viene da chiedersi quanto e come chi fa ricerca riesce a mantenersi “super partes”, anche nel giudizio dei propri lavori. E si scopre che l’ego dello scienziato può portare ad una ipervalutazione del proprio essere affini alle giuste regole imposte dai metodi della ricerca, oltre che a pensare di trovarsi nel settore che più sta offrendo spunti di scienza.

A sottolineare questa sostanziale differenza tra percepito del ricercatore e oggettiva validità dei suoi studi, con il protagonista che tende comunque a sopravvalutare quanto si sta facendo nella sua area (e di conseguenza a correre il rischio di sopravvalutarsi), è una ricerca davvero originale apparsa su Scientific Reports.

Lo studio, che mostra il rischio di una sorta di “chiusura” al mondo esterno con carenza di percezione del valore della propria ricerca da parte degli scienziati, è stato condotto da esperti dell’Università di Linköping, coordinati da Gustav Tinghög del Dipartimento di Ingegneria Gestionale insieme con Lina Koppel e Amanda Lindkvist.

Cosa hanno fatto gli studiosi? Hanno inviato un questionario a circa 33.000 persone che in Svezia fanno ricerca, con circa un terzo di risposte complete. I temi? Di base le loro opinioni su tematiche relative alle regole del Consiglio svedese della ricerca su cosa costituisce una buona pratica, dalla necessità di dire sempre la verità fino alla corretta e trasparente presentazione di premesse, metodi e risultati di uno studio.

Cosa emerge dall’indagine? Sostanzialmente che il ricercatore tende a ipervalutarsi. Secondo quanto riportano gli studiosi svedesi in una nota dell’ateneo, “quasi tutti i ricercatori si considerano altrettanto bravi o migliori della media, il che è statisticamente impossibile”, è il commento “matematico” di Tinghög. “Se tutti potessero guardarsi obiettivamente, ci si aspetterebbe una distribuzione uniforme, intorno alla metà”.

Pensate. Solo l’1% dei ricercatori si considera inferiore rispetto alla media nel seguire buone pratiche di ricerca. Per quanto riguarda le pratiche nel proprio campo di ricerca, il 63% ha affermato che al livello della maggior parte degli altri, il 29% che erano migliori e l’8% che erano peggiori. Insomma: si tende a sopravvalutare il proprio livello di onestà. In particolare se ci si occupa di medicina e salute.

Allora, detto che esiste un bias di partenza dello studio, ovvero che il campione di rispondenti abbia compreso esclusivamente ricercatori particolarmente attenti all’aspetto etico, c’è di che riflettere. Soprattutto in chiave di “umanità” di chi fa ricerca.

Come tutte le persone, tendono a credere e vedere gli aspetti migliori della loro personalità e del loro lavoro. Trovare un bilanciamento è difficile. Ma appare fondamentale per chi fa ricerca. In una situazione di “pendolo” che viene ben spiegata dagli studiosi: “Ogni giorno i ricercatori si trovano ad affrontare il dilemma: dovrei fare ciò che avvantaggia me o dovrei fare ciò che avvantaggia la scienza? In un mondo simile, è importante guardarsi costantemente allo specchio e calibrare la propria bussola etica e di ricerca”, commenta Tinghög.

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