Pressione alta e beta-bloccanti, due novità dagli Usa

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Allo studio un nuovo farmaco che sfutta l’Rna messaggero per imbrigliare la pressione alta, con appena due iniezioni l’anno. Mentre una recente ricerca getta un’ombra sull’efficacia dei farmaci beta-bloccanti nel trattamento dei pazienti colpiti da un primo infarto. Le due novità arrivano dal congresso dell’American College of Cardiology in corso ad Atlanta.

Ipertensione: combatterla con due iniezioni all’anno

Forse non lo sappiamo, ma dopo un anno dall’inizio fino il 50% dei pazienti abbandona la terapia antipertensiva. Così però cala anche la possibilità di proteggere cuore e cervello da infarto e ictus.

Lo studio di cui vi parliamo oggi è stato condotto su 672 pazienti. Protagonista, un nuovo farmaco, zilebesiran, che nello studio KARDIA-2 ha dato risultati “molto incoraggianti”, come ha spiegato Pasquale Perrone Filardi, presidente Società Italiana di Cardiologia e direttore della scuola di specializzazione in malattie dell’apparato cardiovascolare dell’UniversitàFederico II di Napoli. La molecola “interferisce con l’Rna messaggero bloccando nel fegato la produzione di angiotensinogeno, una proteina” chiave nei processi organici “che alla fine provocano il rialzo dei valori pressori”.

Così si innesca, infatti, una sorta di effetto a catena: riducendo la disponibilità di questa proteina nel sangue, infatti, “si abbassa anche la pressione. L’innovativa terapia si somministra con una semplice iniezione sottocutanea simile a quella dell’insulina e la sua azione dura a lungo”, aggiunge l’esperto. È sufficiente ripeterla a distanza di 3 o addirittura 6 mesi. “Con questa modalità di somministrazione, i pazienti che non riescono a seguire la terapia prescritta dal medico, non avrebbero più alibi e il trattamento sarebbe in grado di ridurre in modo significativo i valori di pressione massima senza bisogno di altre cure”.

La terapia post-infarto

Un altro studio, randomizzato, multicentrico e in apertoha invece valutato l’efficacia della terapia con beta-bloccanti in 5.020 pazienti in media di 65 anni, con infarto miocardico acuto, trattati con angioplastica e con una normale funzionalità contrattile del muscolo cardiaco. 

La ricerca, condotta da settembre 2017 a maggio 2023 in 45 centri in Svezia, Estonia e Nuova Zelanda, ha confrontato il decorso clinico del gruppo dei pazienti ai quali era stata prescritta una terapia con beta-bloccanti rispetto a quelli trattati senza questi farmaci. Ebbene, i risultati sono arrivati come una doccia fredda. “A circa 3 anni e mezzo dall’inizio dello studio, l’incidenza di decessi di un secondo infarto non sono stati significativamente differenti nei due gruppi”, sintetizza Ciro Indolfi, Past-president della Società Italiana di Cardiologia. Inoltre “non sono state registrate differenze di rilievo neanche nel numero di ospedalizzazioni per fibrillazione atriale, per insufficienza cardiacaictus per interventi di impianto di un pacemaker”, aggiunge Indolfi

Studi datati

L’efficacia terapeutica dei beta-bloccanti “si basa sulleffetto dimostrato in studi clinici datati, condotti prima della diffusione delle attuali tecniche di rivascolarizzazione con lo stentdellimplementazione sistematica delle statinedella disponibilità di efficaci farmaci per la prevenzione primaria e secondaria e delle moderne terapie antiaggreganti, sostiene Indolfi. 

Quello presentato al congresso Usa è dunque “il primo studio moderno sui benefici dei beta-bloccanti, ed evidenzia la mancanza di efficacia di questa terapia nel ridurre il rischio di morte o infarto nei soggetti colpiti da infartodel mio cardio, trattati con angioplastica coronarica che hanno una normale contrattilità del cuore”, aggiunge Perrone Filardi.

E allora? “Riteniamo che le evidenze siano ancora a favore dei beta-bloccanti per i pazienti con infarto miocardico di grandi dimensioni, che presentano insufficienza cardiaca. Per i pazienti con normale contrattilità del cuore questo studio stabilisce, invece, che non ci sono indicazioni che l’uso di routine dei beta-bloccanti sia vantaggiosoPotrebbe però essere troppo presto per escludere definitivamente questo tipo di terapia dagli strumenti a disposizione nella prevenzione secondaria. Sono, pertanto, necessari ulteriori studi”, conclude il presidente dei cardiologi italiani.

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