Urban Health e Covid, una lezione per cambiare il paradigma della salute

L’emergenza Covid-19 ha messo in evidenza la necessità di ridefinire il concetto di salute in genere, e in particolar modo nelle aree urbane. Nel secolo scorso uno studente chiese all’antropologa statunitense Margaret Mead, quale ritenesse fosse il primo segno di civiltà. La risposta fu sorprendente: “Il primo segno di civiltà in una cultura antica è un femore rotto e poi guarito”. Un femore rotto guarito è la prova che qualcuno si è preso cura di un altro essere umano, lasciandolo in un luogo sicuro e nutrendolo fino alla guarigione: quello è il vero segnale di una civiltà che si umanizza. Oggi come all’inizio dell’evoluzione, ognuno deve prendersi cura dell’altro: la salute di tutti è civiltà.

 

Nel 1948 l’Oms (Organizzazione mondiale della sanità) definì, per la prima volta, la salute come stato di benessere fisico, mentale e sociale e non di sola assenza di malattia. Oggi questo concetto va allargato anche al benessere economico e culturale, sia individuale che collettivo. I medici sanno oggi che la salute dipende dalla genetica, ma anche da fattori ambientali (che a loro volta influenzano geni) e la cura deve, quindi, riferirsi alla malattia e al contesto che circonda l’individuo.

 

Dobbiamo passare da una ‘patient medicine’ a una ‘community medicine’: una salute come bene comune. Il nostro Ssn sta affrontando la sfida epocale Covid-19 con la necessità di modificare la politica e programmazione sanitaria, l’integrazione ospedale-territorio e una patient/community centred care. Questo significa che le eccellenze sanitarie lo sono solo se sono in grado di riconvertire rapidamente la medicina personalizzata e di precisione incentrata sul paziente, verso l’insieme della collettività. Solo in questa visione una polmonite atipica è un indizio, due polmoniti atipiche sono una coincidenza, ma tre polmoniti atipiche ravvicinate sono la prova che qualcosa di atipico sta accadendo in quella comunità!

 

Una emergenza sanitaria, sociale ed economica globale, come la pandemia di Covid-19, ci ha dimostrato di dovere considerare le malattie trasmissibili come una minaccia ancora presente, in grado di cambiare la vita delle persone del ‘condominio’ Terra, come già sapevamo per le malattie non trasmissibili, che fino a poco tempo fa erano il nostro principale target, per aggiungere qualità alla quantità di vita del singolo. In un’epoca in cui le conoscenze biomediche sono progredite a ritmi impressionanti, con un conseguente e diffuso delirio di onnipotenza e di comunicazione sfrenata, in cui la Evidence-Based Medicine è sostituita dal Doctor Google e da esperti auto dichiaratisi tali, appare ai veri esperti evidente il contrasto con una medicina frazionata in silos e poco adeguata alla società e l’ambiente.

 

La medicina dovrà sempre più tenere conto della ricerca scientifica per predisporre risposte alle grandi sfide che fenomeni come globalizzazione e, soprattutto, di urbanizzazione hanno e avranno in futuro sulla salute degli individui e delle comunità. Ecco perché le città sono e saranno un laboratorio di community e in cui riconsiderare il ruolo del government e della governance della salute: di chi prende le decisioni, e l’insieme che deve renderle realizzabili e utili alla comunità, soprattutto durante le emergenze.

 

Da questo nasce l’esperienza del Think Tank Health City Institute (Hci) e la sua collaborazione, come consulente privilegiato, del Comitato di Biosicurezza (Cnbbsv) della PdC nella governance della Salute Urbana.

 

Va ripensata, ad esempio la mission dei grandi ospedali urbani e la loro flessibilità: con la pandemia di Covid è stato più facile agire in strutture ospedaliere orizzontali, con padiglioni specializzati da accendere, spegnere, riconvertire in rapporto con il territorio, rispetto ai grandi monoblocco. Deve cambiare radicalmente il concetto di Urban Health, in una visione dinamica che sia in grado di integrare lo sviluppo urbano con scelte capaci di incidere sui fattori multidimensionali di fragilità: la prevenzione, la diagnosi e l’accesso alle cure, gli stili di vita individuali e collettivi. Il concetto di gruppo sociale, economico, lavorativo e culturale, quello di famiglia, intesa come il nucleo di riferimento dove si sviluppano, come abbiamo visto in questi mesi, le prime strategie quotidiane di salute e si vedono i primi indizi di malessere e malattia. Quindi quello di comunità, intesa come l’insieme di individui, dove gli indizi diventano coincidenze e prove, e dove i medici del territorio ed ospedalieri devono fare questo collegamento.

 

Una salute che, proprio nelle città, è sempre più “bene comune e indivisibile”.
In questi giorni stiamo imparando, in tutto il mondo, a convivere con il timore che, ove la pandemia di Covid-19 si espandesse incontrollata nelle metropoli, questa potrebbe essere una tragedia di dimensioni tali da essere, in una visione darwiniana, irreversibile.

 

Per concludere, l’attività dell’Hci con una collaborazione multidisciplinare fra professionalità – medici, sociologi, urbanisti, statistici, bioingegneri, economisti, amministratori e decisori politici – vuole avviarsi verso una early detection, early diagnosis, early prevention ed early treatment. Inserendo il medico-ricercatore in stretta correlazione con esperti di programmazione ed organizzazione dei servizi, in una una community di saperi per pianificare città in salute e far entrare il concetto di salute ‘nelle case degli italiani’, occupandosi anche di ‘social divide vs disuguaglianze’ per evitare, se possibile, e curare, se necessario, quel femore rotto del nostro progenitore, primo esempio di evoluzione civile.

 

*Andrea Lenzi, direttore Dipartimento di Medicina sperimentale Università Sapienza di Roma, presidente del Comitato nazionale sulla Biosicurezza, le Biotecnologie e le Scienze della vita della Presidenza del Consiglio dei ministri e presidente dell’Health City Institute.

 

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