Cuore, atteso un picco di mortalità per ‘effetto Covid’

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Nei prossimi anni il nostro Paese rischia di trovarsi a fare i conti con un picco di mortalità per patologie del cuore. Un’ondata di decessi dovuta al rallentamento di visite, esami e interventi registrato in due anni di pandemia, che rischia di farci tornare indietro a 20 anni fa.  E di rilanciare un big killer rimasto sotto traccia negli anni dell’emergenza Covid.

Non lascia tranquilli il monitoraggio condotto dalla Società Italiana di Cardiologia su 45 ospedali italiani fra novembre 2021 e gennaio 2022: il 68% delle strutture ha tagliato interventi e ricoveri, il 50% esegue meno esami diagnostici, il 45% ha ridotto le visite ambulatoriali, il 22% ha dovuto diminuire i posti nelle Utic.

Una rarefazione dei servizi un po’ in tutta Italia, cui si somma un altro effetto di Covid-19: i pazienti guariti, infatti, hanno un maggior rischio di malattie cardiovascolari entro 12 mesi dall’infezione. “Sono dati molto preoccupanti, che testimoniano una situazione di evidente emergenza per i pazienti italiani con malattie cardiovascolari”, sottolinea Ciro Indolfi, presidente della Società Italiana di Cardiologia e vice-presidente della Confederazione Cardiologi, Oncologi ed Ematologi (Foce).

Secondo gli esperti, con la quarta ondata di Covid-19 in fase calante è arrivato il momento di pensare davvero alla salute del cuore degli italiani. “La variante Omicron e il vaccino hanno ridotto significativamente le forme gravi di Covid 19 e la necessità di finire in rianimazione, invece le conseguenze dirette e indirette della pandemia sulle malattie cardiovascolari sono ancora purtroppo ampiamente sottovalutate – sottolinea Indolfi – La necessità di reclutamento di posti disponibili per pazienti Covid, spesso usati per garantire la mancata progressione in zone arancione o rossa, la mancata programmazione nei mesi precedenti e le decisioni emergenziali hanno portato a una riorganizzazione sanitaria che ha penalizzato molte cardiologie in tutto il Paese”.

E la prova arriva dai numeri degli interventi: sono diminuite le angioplastiche coronariche, l’impianto percutaneo delle valvole cardiache, le procedure per l’impianto di pacemaker e defibrillatori, le ablazioni; sono stati ridotti gli elettrocardiogrammi, le ecocardiografie e i test da sforzo.

Insomma, il rischio è quello di veder azzerati i progressi fatti dalla ricerca negli ultimi due decenni. Complice anche lo stile di vita, peggiorato in pandemia. “Oggi si registrano 1 milione di fumatori in più rispetto al passato, il 44% degli italiani è aumentato di peso, il consumo eccessivo di alcol è cresciuto del 23,6% fra i maschi e del 9,7% fra le donne”, sottolinea Pasquale Perrone Filardi, presidente eletto della Sic e ordinario di Cardiologia all’Università Federico II di Napoli.

Se già il cuore degli italiani non stava bene, Covid-19 sembra aver inferto un duro colpo. “In Italia le malattie cardiovascolari rappresentano il 44% di tutti i decessi, la cardiopatia ischemica è la principale causa di morte (28%) e 4,4 italiani ogni mille vanno incontro a disabilità cardiovascolare”, sottolinea Gianfranco Sinagra, vice-presidente della Sic e ordinario di Cardiologia dell’Università di Trieste.

Nonostante il peso delle malattie cardiovascolari, nel 2016 l’aspettativa di vita alla nascita in Italia era di 82,8 anni, tra le più lunghe al mondo. Dall’inizio della pandemia però “l’aspettativa di vita post-pandemica è diminuita a 82 anni, con un ulteriore decremento di 1,2 anni nel 2020 rispetto al 2019. A 65 anni, l’aspettativa scende a 19,9 anni (18,2 anni per gli uomini, 21,6 anni per le donne): serve perciò una campagna di prevenzione efficace e soprattutto occorre riorganizzare le strategie terapeutiche nei pazienti cardiopatici, senza tagliare sulla loro assistenza come invece sta accadendo”, conclude Sinagra.

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