Tumore dell’ovaio, la guarigione non è più un’utopia grazie a olaparib

tumore ovaio
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È un bel giorno per le donne affette da tumore dell’ovaio, perché i dati degli studi presentati all’Esmo a Parigi scaldano il cuore e regalano tanta speranza. Due terzi delle pazienti affette da carcinoma ovarico in fase avanzata e portatrici della mutazione di Angelina Jole (e di Bianca Balti), trattate con olaparib, il capostipite dei Parp inibitori, sono ancora vive a 7 anni dalla diagnosi.

“Un risultato epocale – commenta Saverio Cinieri, presidente dell’Associazione Italiana di Oncologia Medica (Aiom) – mai osservato prima per questo tumore che nell’80% viene scoperto in fase avanzata, perché mancano ancora efficaci strumenti di screening. Ma oggi abbiamo delle terapie mirate”.

Che fanno la differenza e sono practice changing, come dimostrano i risultati a 7 anni dello studio di fase III SOLO-1, presentati a Parigi al congresso dell’Esmo e pubblicati in contemporanea su Journal of Clinical Oncology.

“I dati di sopravvivenza a 7 anni sono molto significativi – commenta il primo autore, il professor Jonathan Ledermann, Ucl Cancer Institute di Londra – In precedenza avevamo comunicato i risultati positivi a 5 anni sulla sopravvivenza libera da progressione di malattia, ma oggi, con un follow-up di 7 anni, siamo in grado di vedere una chiara differenza nelle percentuali di sopravvivenza nelle donne trattate con olaparib”.

A questo studio multicentrico internazionale hanno preso parte anche la professoressa Nicoletta Colombo dell’Istituto Europeo dei Tumori (Ieo) di Milano e il professor Giovanni Scambia della Fondazione Policlinico Gemelli di Roma.

Nel SOLO-1 la terapia di mantenimento in prima linea con olaparib, un farmaco in compresse, assunto per due anni al termine della chemioterapia, nelle donne con tumore dell’ovaio Brca-mutato neodiagnosticato, aumenta la sopravvivenza del 45%. A 7 anni dalla diagnosi sono ancora vive quasi i due terzi (circa il 70%) delle donne trattate con olaparib, contro il 46,5%, cioè meno della metà, del gruppo di controllo.

E c’è chi comincia anche a parlare di casi di guarigione, una parola tabù fino a qualche tempo fa per questo setting di pazienti. “I risultati a lungo termine del SOLO-1 – commenta a Fortune Italia Ketta Lorusso, professore associato di Ostetricia e Ginecologia e responsabile Programmazione Ricerca clinica della Fondazione Policlinico Universitario A .Gemelli Irccs di Roma – confermano che il beneficio di olaparib in monoterapia si estende ben oltre il limite massimo di 2 anni del trattamento di mantenimento, continuando a produrre un miglioramento clinicamente significativo sulla sopravvivenza globale per più di sette anni. Questi dati ci permettono di sperare dunque che, per alcune pazienti con tumore ovarico avanzato, la guarigione sia possibile”.

Quelli del SOLO-1 sono i primi dati che dimostrano un vantaggio di sopravvivenza nelle donne trattate con un Parp inibitore, in quello che è il più lungo follow-up finora disponibile per queste terapie. Questi risultati ne supportano dunque l’impiego come terapia di mantenimento nelle donne con tumore ovarico Brca-mutato neodiagnosticato, in fase avanzata, al termine della chemioterapia.

La prognosi delle donne affette da tumore ovarico in fase avanzata, storicamente era una delle peggiori. L’arrivo dei Parp inibitori ha però scardinato questo dogma. E negli ultimi anni è risultato evidente che questi farmaci sono efficaci non solo nelle donne Brca-mutate, ma anche in quelle con instabilità genomica, cioè con deficit di ricombinazione omologa del Dna (HDR+).

I risultati di sopravvivenza di un secondo studio di fase III presentato all’Esmo, il PAOLA-1, che ha confrontato il trattamento di mantenimento, dopo chemioterapia, con bevacizumab (un farmaco anti-angiogenetico) e olaparib, contro il solo bevacizumab (gruppo di controllo), nelle donne con tumore ovarico neodignosticato in fase avanzata, evidenziano un aumento della sopravvivenza del 30% a 5 anni nelle donne HRD+ trattate con olaparib e del 40% nelle donne Brca-mutate e HRD+ trattate con questo Parp inibitore, rispetto ai controlli.

“Le mutazioni Brca – ricorda la professoressa Colombo, direttore del Programma di Ginecologia Oncologica dell’Istituto Europeo di Oncologia di Milano e professore associato all’università Milano-Bicocca – sono presenti in una donna su 4 con tumore dell’ovaio, mentre lo status HRD+ è presente in metà di questa popolazione. I risultati di questo studio, ampliano dunque di molto la platea delle donne che possono beneficare dal trattamento con olaparib. Nello studio PAOLA-1, la combinazione olaparib-bevacizumab ha ridotto il rischio di morte del 38%. Inoltre, l’aggiunta di olaparib ha portato la sopravvivenza libera da progressione ad una mediana di quasi 4 anni, cioè a 46,8 mesi rispetto ai 17,6 mesi che si ottengono con il solo bevacizumab”.

“Storicamente, il tasso di sopravvivenza a 5 anni delle pazienti con tumore ovarico neodiagnosticato in fase avanzata – ricorda il presidente Cinieri – è del 10-40%. I risultati ottenuti con olaparib di questi due studi sono epocali e sottolineano ancora una volta l’importanza, al momento della diagnosi, di effettuare il test HRD, oltre al Brca al momento della diagnosi. È il primo passo di un approccio di medicina di precisione, fondamentale per definire la migliore terapia. Ci auguriamo che il test HRD sia rimborsato quanto prima nel nostro Paese, perché è fondamentale per selezionare le pazienti che possono beneficiare del trattamento di prima linea personalizzato con una terapia mirata”.

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