Cuore, diabete e reni: un farmaco ‘che fa per 3’

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La ricerca farmacologica punta a terapie sempre più mirate, e non sono rari i ‘vecchi medicinali’ che – messi alla prova – rivelano nuove, interssanti, proprietà. Questa volta, però, la novità riguarda un farmaco che si è rivelato efficace per cuore, diabete e persino reni. Organi diversi ma collegati, ‘bersaglio’ di patologie molto diffuse, specie nei Paesi occidentali.

Una ricerca internazionale condotta dall’Università di Oxford, che vede coinvolto, tra gli altri, l’Irccs Ospedale Policlinico San Martino di Genova come centro coordinatore per l’Italia, pubblicata sul New England Journal of Medicine, ha coinvolto 6.600 pazienti.

Il trial mostra che l’empagliflozin, un farmaco antidiabetico il cui uso è stato esteso anche ai pazienti con problemi cardiovascolari, è sicuro, riduce del 30% la progressione della malattia renale cronica e la mortalità cardiovascolare. Una molecola e tre benefici, dunque.

Sono i numeri a darci un’idea dell’impatto potenziale di questa ricerca: sono 3 milioni gli italiani con problemi renali cronici, che riguardano il 10% della popolazione mondiale, con nuove diagnosi in drammatico aumento.

La malattia renale cronica è una delle principali cause di mortalità a livello globale: si stima che ogni anno nel mondo ci siano almeno 5 milioni di decessi con un numero di casi in costante crescita, essendo questa malattia strettamente collegata ad altre patologie metaboliche e cardiovascolari, tra cui appunto il diabete, l’ipertensione e l’obesità.

Lo studio clinico sul farmaco ha ricevuto lo stop anticipato per gli evidenti effetti positivi registrati dopo il trattamento. “Fino a oggi la strategia terapeutica per rallentare il peggioramento della malattia era basata sul controllo e la correzione dei fattori di rischio renale e cardiovascolare, come la pressione o l’indice glicemico – ricorda Roberto Pontremoli, direttore della Clinica di Medicina Interna 2 del Policlinico San Martino, professore ordinario di Medicina Interna dell’Università di Genova e coordinatore nazionale dello studio – Questa strategia, tuttavia, si è dimostrata solo parzialmente efficace e la maggior parte dei pazienti manifesta un progressivo deterioramento nel tempo della funzione renale”.

“Recentemente, dapprima nei pazienti con diabete tipo 2 e anche in pazienti con malattia renale cronica ma senza diabete, le glifozine hanno dimostrato una spiccata capacità di rallentare l’evoluzione della malattia”.

Una classe di farmaci che previene l’accumulo di glucosio

Al centro dell’attenzione una nuova classe di farmaci che agiscono con un meccanismo metabolico del tutto nuovo, inizialmente studiati e utilizzati come antidiabetici. “Questi farmaci – chiarisce Pontremoli – bloccano il funzionamento di alcune proteine renali, chiamate cotrasportatori sodio-glucosio, fondamentali per il mantenimento dei livelli ottimali di glucosio nel sangue. Le glifozine, inibendo il funzionamento di queste proteine, prevengono l’accumulo di glucosio in eccesso che viene espulso dall’organismo attraverso le urine. Il passaggio di glucosio attraverso il rene nelle urine innesca meccanismi che portano molteplici effetti protettivi sulle cellule renali”.

Lo studio

Lo studio ha coinvolto, oltre l’Italia, 7 Paesi: Stati Uniti, Canada, Regno Unito, Germania, Malesia, Giappone e Cina. L’indagine ha valutato in 6.609 pazienti con problemi renali, con e senza il diabete, la sicurezza e l’efficacia del trattamento con empagliflozin.

“I pazienti, con età media di 63,8 anni, sono stati seguiti per due anni per valutare l’andamento della malattia, la mortalità e i ricoveri – precisa Pontremoli – Un evento cardiovascolare (infarto o ictus) o renale si è verificato in 432 dei 3.304 pazienti del gruppo che ha assunto il farmaco e in 508 dei 3.305 pazienti del gruppo placebo, dimostrando che il farmaco riduce del 28% la progressione della malattia in forma più grave, sia nei pazienti diabetici che in quelli senza diabete. Inoltre, – aggiunge l’esperto – nel gruppo che ha assunto empagliflozin si è registrato un minor numero di ricoveri, con una riduzione del 14% rispetto al gruppo placebo”.

Questo studio “suggerisce la possibilità di estendere l’impiego dell’empagliflozin in pazienti con problemi renali cronici anche senza diabete”, conclude Pontremoli, convinto che il trattamento sia destinato ad influenzare significativamente gli standard terapeutici per i prossimi 10-20 anni.

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