Sanità, superiamo i tetti di spesa grazie a strumenti più virtuosi, l’analisi di Mennini

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Mentre scriviamo, il nuovo Piano nazionale di contrasto all’antibiotico-resistenza (Pncar) 2022-2025 è ancora in attesa della approvazione definitiva, con la ratifica dell’intesa tra Governo, Regioni e Province autonome. Il nuovo Piano è costruito su tre pilastri, la sorveglianza e il monitoraggio integrati dell’antibiotico resistenza, la prevenzione delle infezioni correlate alla assistenza (Ica) e l’uso appropriato degli antibiotici, tanto in ambito umano che veterinario. E su quattro aree orizzontali di supporto, formazione, informazione, comunicazione e trasparenza, ricerca, innovazione e bioetica, e cooperazione nazionale ed internazionale. Particolare attenzione è stata riservata alla governance, con l’istituzione di una cabina di regia alla quale è affidata l’individuazione delle responsabilità delle diverse istituzioni coinvolte e il raccordo con il Piano nazionale della prevenzione 2020-2025.

Da una parte si inquadrano, quindi, le strategie di contrasto all’antimicrobico resistenza al contesto più ampio della prevenzione e alla programmazione relativa, come è giusto che sia, dall’altra si legano in maniera più esplicita e trasparente attribuzione di compiti e responsabilità. Ciò che dovrebbe favorire una attuazione più puntuale del nuovo Pncar.

D’altro canto, quel primato condiviso con la Grecia riguardante il numero di decessi annui per infezioni da germi multiresistenti richiede determinazione per innescare in tempi stretti una inversione di rotta. Abbiamo ripreso la nostra riflessione sul tema con il professor Francesco Saverio Mennini, professore di Microeconomia e di Economia sanitaria all’Università Tor Vergata di Roma, e presidente della Sihta, la Società italiana di Health Tecnology Assessment.

Professor Mennini, con lei vorremmo riprendere il tema antimicrobico resistenza dal punto di vista delle policy che si possono introdurre, più o meno rapidamente, e dei vantaggi che potrebbero portare alla soluzione del problema. Ma prima vorremmo avviare questa chiaccherata, ancora una volta, dal primato che l’Italia detiene insieme alla Grecia per diffusione di germi resistenti, e che la colloca al primo posto tra i Paesi dell’Ue per numero di decessi annui, circa 10.000. Sappiamo che il 75% delle infezioni è associata all’assistenza sanitaria (ICA), con un costo totale superiore ai 66 milioni di euro. Ce ne è abbastanza, ci sembra, per chiedersi come mai non riusciamo ad invertire la rotta, e in tempi ragionevolmente stretti?

 

Intanto un aggiornamento sui numeri. Non abbiamo solo il triste primato delle infezioni e dei decessi, ma se andiamo a guardare i ricoveri collegati alla stessa causa, le infezioni da germi multiresistenti, siamo passati da 27 casi su 1.000 ricoveri per acuti in regime ordinario nel 2006 a quasi 54 nel 2019, con un trend di crescita evidente e preoccupante che dovrebbe indurre a più di qualche riflessione. I costi correlati alla assistenza ospedaliera, conseguenti all’incremento delle giornate di degenza a seguito di infezioni da germi multiresistenti, ricavato anche attraverso la comparazione tra ricoveri con e senza infezioni, è stato stimato in circa 600 milioni di euro. Quindi stiamo parlando di cifre molto importanti.

Come invertire questa tendenza? Da una parte attraverso l’implementazione di programmi di prevenzione, che può proteggerci da questo fenomeno per circa il 30-40%. Per il resto bisogna investire in tecnologie innovative, come percorsi all’interno delle strutture sanitarie che consentano ai pazienti di accedere precocemente alle nuove terapie antibiotiche, che possono intervenire con successo sui germi multiresistenti.

 

L’ultimo report dell’Ecdcsull’antimicrobico resistenza (Amr) stima che con investimenti che potrebbero ripagarsi in un solo anno si potrebbero prevenire 27mila dei 33mila decessi annui conseguenti ad Amr in Europa (costo 1,1 miliardi di euro annui), e generare risparmi per 1,4 miliardi per anno. Come mai tutto questo non è prioritario nelle politiche dei sistemi sanitari, soprattutto dei Paesi del Sud e dell’Est Europa, che sono maggiormente interessati a questo fenomeno?

È una questione innanzitutto di approccio ai servizi sanitari. Intervenire su questa materia significa mettere in campo investimenti sui modelli organizzativo-gestionali, su nuovi percorsi diagnostico-terapeutici all’interno delle strutture sanitarie, e poi ricorrere anche all’utilizzo di nuove terapie che possono supplire alle terapie che purtroppo in molti casi falliscono. L’approccio sin qui seguito, almeno sino a tutto il periodo pre-pandemico, ha visto la sanità come un costo e non come una opportunità e un investimento, per cui si è sempre inseguita l’emergenza del momento e si è cercato di dare priorità a patologie o a situazioni alle quali si poteva porre rimedio con interventi emergenziali. In questo caso si dovrebbe introdurre una serie di misure importanti, peraltro già previste ma scarsamente seguite a causa di una attenzione inadeguata al fenomeno, piuttosto sottovalutato nel passato. Va detto, tuttavia, che anche grazie alla spinta da parte del Ministero della Salute, nel corso degli ultimi anni l’attenzione nei confronti del tema è cresciuta moltissimo e si sta iniziando a porre le basi per un miglioramento. È necessario proseguire su questa strada, valorizzare correttamente le terapie che via via arrivano sul mercato e renderle disponibili accanto alle politiche di prevenzione.

Le politiche di contrasto dell’Amr hanno bisogno di svilupparsi lungo più direttrici, la stewardship antibiotica, l’efficienza della prevenzione e del controllo delle infezioni in ospedale e sul territorio, l’innovazione nella diagnostica e nella terapia, l’accesso alla innovazione, una informazione in grado di incrementare la consapevolezza della urgenza del tema anche nell’opinione pubblica, non solo tra gli addetti ai lavori. Quale di queste direttrici considera più interessante e prioritaria?

In realtà si tratta di politiche che devono procedere tutte in parallelo. Ovviamente bisogna investire in prevenzione, così come è necessario utilizzare gli antibiotici di nuova generazione, accompagnandoli con nuovi modelli organizzativo-gestionali, protocolli e sistemi organizzativi integrati che determinano un vantaggio importante tanto in termini di efficacia che di efficienza. E poi vorrei fare un richiamo al Piano nazionale di contrasto all’antimicrobico resistenza 2017-2020, che identificava già sei aree di intervento, la sorveglianza, la prevenzione, il controllo delle infezioni, l’uso degli antibiotici, inclusa la stewardship antimicrobica, e poi ancora training, informazione e comunicazione. Ci eravamo già dati misure e strumenti, ma bisogna tenerne conto, seguendo una logica proattiva, con un approccio multidisciplinare e multidimensionale. Quelle misure e quegli strumenti potrebbero garantire l’inizio di un nuovo percorso e contrastare le problematiche di natura epidemiologica e clinica, così come economica.

 

Come valuta l’accesso agli antibiotici innovativi nel nostro Paese, a che punto siamo?

Si inizia ad intravedere un miglioramento rispetto al passato. Negli ultimi dieci-quindici anni ha prevalso un approccio che tendeva a limitare, in qualche modo, l’innovazione in questo settore, talvolta creando ostacoli alla introduzione di nuovi antibiotici. Si riteneva che si trattasse di strategie delle case farmaceutiche per massimizzare i profitti, in realtà si sono perse occasioni importanti. Il rischio con questo genere di approccio è che le Aziende non siano più disposte ad investire laddove non vedano riconosciuto il valore della innovazione, nel nostro Paese ma anche a livello internazionale. L’attenzione cresciuta nel corso degli ultimi anni sul tema delle infezioni correlate alla assistenza e dell’antimicrobico resistenza sembra aver contribuito ad una inversione di rotta, con nuovi investimenti, nuovi antibiotici, e un atteggiamento diverso da parte delle agenzie regolatorie rispetto al valore dell’innovazione anche in questo ambito della ricerca. Bisogna augurarsi di proseguire su questa strada.

 

I tetti di spesa hanno inciso negativamente su tutta questa situazione?

I tetti di spesa hanno inciso negativamente sulle politiche di accesso, perché sono uno strumento emergenziale, anche se noi li abbiamo utilizzati nel corso degli ultimi quindici-venti anni, e hanno generato una serie di distorsioni del mercato. In Italia non sono correlati al fabbisogno reale ma, unico Paese, alla spesa corrente. Ciò pone dei vincoli di bilancio alle Regioni e alle Aziende sanitarie, che devono tenere sotto controllo la crescita della spesa per timore di generare sfondamenti rispetto ai tetti nella erogazione dei farmaci, anche per ciò che riguarda gli antibiotici. Ma gli sfondamenti sono fisiologici nel momento in cui il tetto non è correlato al fabbisogno reale, e avendo peraltro ridotto i tetti nel corso degli anni, è chiaro che ogni anno si generano sfondamenti. Un passo in avanti si è fatto con l’introduzione del fondo per i farmaci innovativi. Non dico che si debba introdurre un fondo per gli antibiotici innovativi, ma porre una attenzione diversa, e rivedere i tetti di spesa, come è stato fatto negli ultimi mesi del 2021 dal Ministero della Salute. Si creano così spazi per risorse aggiuntive, che possono garantire un miglior accesso anche agli antibiotici innovativi. Sicuramente i tetti di spesa sono uno strumento da rivedere, progressivamente, ed eliminare, sostituendoli con altri strumenti più virtuosi.

 

L’innovazione scientifica e tecnologica ha bisogno di altra innovazione, per esempio quella organizzativa, ma non solo. Una parte delle terapie avanzate che si stanno autorizzando ultimamente prevedono soluzioni innovative nei meccanismi di rimborso da parte del Ssn. Come facciamo ad aumentare la spinta alla innovazione all’interno del sistema? Qual è la strada da intraprendere per rendere il sistema più aperto da questo punto di vista?

Per rendere il sistema più aperto alla innovazione bisogna cambiare gli strumenti di governo della spesa. I fondi per i farmaci innovativi stanno funzionando molto bene, quindi si potrebbe partire con un meccanismo analogo, abolendo i tetti e staccando il fondo della farmaceutica dal Fondo sanitario nazionale, creando quindi un fondo distinto, non collegato alla spesa corrente. Già una operazione di questo genere consentirebbe di agevolare l’accesso ai farmaci.

È necessario, inoltre, adeguare le risorse al fabbisogno reale. E proseguire sulla strada che sta tracciando anche l’Aifa con la definizione delle nuove linee guida per la valutazione dei farmaci, cioè nella direzione della valorizzazione della innovazione attraverso l’HTA, per riuscire a dare un significato corretto ai farmaci in termini di valore guardando a tutti gli aspetti da considerare, quello farmacologico, quello clinico, ma anche quello economico. In sostanza, valutare l’utilità del ricorso ad un nuovo farmaco attraverso un esame di questo genere e una comparazione con i farmaci già esistenti in commercio. Laddove è stato utilizzato questo metodo, si è arrivati ad una definizione del prezzo per il rimborso sostenibile, e in molti casi farmaci ai quali erano stati riconosciuti prezzi considerati elevati hanno dimostrato di generare risparmi nel breve-medio periodo. Dobbiamo applicare logiche di valorizzazione corretta dei farmaci e della innovazione, e ciò ci porta automaticamente ad un accesso corretto alle terapie in una cornice di sostenibilità. Abbiamo bisogno di utilizzare strumenti diversi rispetto a quelli che adottiamo al momento, sicuramente il tetto non è lo strumento che può offrire le garanzie necessarie. Il fondo per i farmaci innovativi indica una strada possibile per assicurare accesso immediato alle cure e sostenibilità del sistema.

 

La valutazione dei farmaci innovativi non dovrebbe fermarsi al momento della conclusione del processo regolatorio-autorizzativo, ma proseguire successivamente utilizzando dati di real world evidence, in maniera da rivalutare, se necessario, il prezzo di rimborso fissato. Ci servirebbe, come qualcuno sostiene, una agenzia di Health Tecnology Assessment scorporata dall’Aifa, o va bene conservare questa funzione all’interno della agenzia regolatoria?

Una agenzia di HTA sarebbe sicuramente auspicabile, e noi come Società scientifica l’abbiamo proposta lo scorso anno. Proprio per questa ragione facevo riferimento all’HTA per la valutazione dei nuovi farmaci e della innovazione. Uno degli aspetti di maggior rilievo dell’HTA è il monitoraggio, e il monitoraggio post approvazione è fondamentale per tutte le verifiche riguardanti la conferma, o meno, di quanto era stato evidenziato nel corso dei trial clinici riguardo all’efficacia del farmaco, oltre che dell’adeguatezza del percorso e del modello organizzativo-gestionale per l’accesso al farmaco e della correttezza del suo disegno in funzione della massimizzazione dell’outcome dello stesso farmaco. Una agenzia nazionale di HTA, che non deve sostituire le agenzie regolatorie esistenti, ma rappresentare semmai un trait d’union con l’Aifa per i farmaci e con la cabina di regia per i dispositivi medici, sarebbe utile soprattutto perché dal 2025 sarà attuato il Regolamento europeo di HTA per i farmaci, e ciò comporterà un cambio di prospettiva e un mutamento significativo dei ruoli delle agenzie regolatorie. Bisogna incominciare a ragionare in questa ottica, anticipare i tempi e farsi trovare pronti nel momento in cui il Regolamento sarà effettivamente attuativo, tanto per i farmaci che per i dispositivi medici.

Quali sono le strade da battere per incentivare una ripresa vigorosa della ricerca in questo settore anche nel nostro Paese?

Per aprire una nuova stagione della ricerca in questo settore è necessario utilizzare tutti i fattori ai quali abbiamo fatto cenno sinora come leve: garantire il riconoscimento del valore del farmaco innovativo, contemperando gli aspetti che riguardano l’efficacia clinica con quelli relativi ai vantaggi economici e sociali; riconoscere l’impatto che gli stessi farmaci possono avere sulla spesa sanitaria ma anche su quella sociale e l’apporto che si può dare al Paese in termini di Pil e di valore aggiunto per l’economia nel suo complesso; rivedere regole e strumenti come i tetti di spesa e, aspetto fondamentale, sottolineato anche dal Ministero della Salute e da alcune Regioni, superare la logica dei silos. Se continueremo a ragionare secondo quella logica, nel momento in cui valuteremo l’impatto di un farmaco innovativo non riusciremo purtroppo a dimostrarne fino in fondo il suo valore complessivo.

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